mercoledì 28 dicembre 2016

Commento al Vangelo di Domenica 1 gennaio 2017, Solennità di Maria Santissima, Madre di Dio



MARIA: IL PENSARE CHE ACCENDE LA PASSIONE DELLA VITA


TESTO  (Lc 2,16-21) 

In quel tempo, [i pastori] andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.
I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.
Quando furono compiuti gli otto giorni prescritti per la circoncisione, gli fu messo nome Gesù, come era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo.


COMMENTO

Lo stesso Vangelo della mattina di Natale, ma in questa Solennità di Maria Santissima Madre di Dio, vale la pena soffermarsi sulla figura di Maria. Si dice di lei che “ … da parte sua , custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore”.

Maria custodisce le tante cose sentite su questo straordinario bambino fiorito nel suo grembo e le medita. Il testo originale si potrebbe tradurre “…le metteva insieme”. Maria ha ascoltato l’angelo Gabriele che le ha annunciato la nascita di Colui che sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo. Poi la parente Elisabetta le conferma che diventerà la madre del Signore. Infine i pastori riferiscono di quegli angeli che hanno annunciato loro nella notte la nascita di un salvatore nella città di Davide, Betlemme.
Maria custodisce queste parole e le “mette insieme”.

 Di questi tempi la velocità delle comunicazioni ci permettono di scambiarci informazioni con grande rapidità ma quante di queste “cose” sono da noi trattenute, filtrate? Quanto siamo capaci di valutare, soppesare cose importanti e cose insignificanti? Tutto viene sottoposto alla nostra attenzione ad una tale velocità che in realtà non siamo più capaci di trattenere, e ancor meno di mettere insieme.
Maria non era una donna intellettuale, ma era una donna sapiente che sapeva intuire, a partire dalla saggezza della sua fede semplice, che c’era qualcosa di profondamente vero in tutto quello che le stava accadendo; ha saputo fare sintesi di tutti questi eventi e infine ha colto quel filo rosso di una storia divina che stava intrecciandosi con la trama della sua povera umanità.

Dovremmo fare anche noi la stessa cosa. Saper trattenere con più attenzione i tanti messaggi che il Signore ci manda nella nostra storia quotidiana; in ogni circostanza il Signore ci parla, ci affida un messaggio; ogni incontro e ogni esperienza possono diventare esperienze di fede se letti e custoditi con il cuore semplice di chi vive in ascolto e alla ricerca del vero, del bene e del bello.

giovedì 22 dicembre 2016

Commento al Vangelo di Domenica 25 dicembre 2016, Natale del Signore.




Il Riscatto Degli Esclusi


TESTO (Lc 2,15-20) messa dell'Aurora

Appena gli angeli si furono allontanati da loro, verso il cielo, i pastori dicevano l’un l’altro: «Andiamo dunque fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». 

Andarono, senza indugio, e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, adagiato nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 
Tutti quelli che udivano si stupirono delle cose dette loro dai pastori. Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore.

I pastori se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro.


COMMENTO

“Vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere”. Questa è la motivazione che muove i pastori ad intraprendere il loro viaggio, non sappiamo quanto lungo, verso Betlemme. I pastori hanno conosciuto, in qualche modo sono già entrati in contatto con un fatto accaduto e annunciato loro dagli angeli: “…oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore.”

La situazione dei pastori è significativa: ci dice il Vangelo che “c’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge”. Questi uomini erano costretti dal loro lavoro alla veglia notturna e alla precarietà di dover dormire all’aperto, senza neppure un tetto sopra la testa. Vi troviamo il modello di due atteggiamenti spirituali quanto mai necessari per accogliere l’annuncio di Cristo Salvatore.

La veglia è qualcosa di più che rinunciare al sonno; indica piuttosto la sobrietà della vita, il fatto di avere una coscienza vigilante, sempre attenta e desiderosa di distinguere il bene dal male. San Paolo indica la veglia come una condizione per la vigilanza dello spirito che prega in noi: “Pregate in ogni tempo, per mezzo dello Spirito, con ogni preghiera e supplica; vegliate a questo scopo con ogni perseveranza” (1 Ts 5,12).  La veglia è segno dell’attesa della venuta del Salvatore.

 I Pastori condividevano l’attesa degli ebrei del tempo e con la loro semplicità piena di speranza, accolsero l’annuncio della venuta del Salvatore delle genti. Come i pastori siamo chiamati a guardare con fiducia il nostro tempo: esso non sarà mai troppo ricolmo di male e di dolore da non far germogliare la salvezza finale di Cristo Signore.

Poi i pastori vivono la sobrietà e la precarietà della vita, senza neanche un tetto sotto il quale dormire. Quella notte di 2000 anni fa la gioia della nascita del Salvatore del mondo fu vissuta anzitutto da due giovani sposi che non trovarono alloggio per passare la notte, e da un gruppo di pastori momentaneamente “senza tetto”. Le consolazioni del Signore arrivano anzitutto ai poveri della terra, a quelli che non hanno altro riparo che il cielo, a quelli che non hanno un posto confortevole, caldo e sicuro per riposare, a quelli che quanto meno non investono su questo i loro sogni di felicità.

Il Signore che viene continuamente nel mondo, nel giorno in cui la Chiesa lo celebra bambino nella grotta di Betlemme, ci trovi vigilanti nel desiderio di vivere alla sua presenza ogni momento; ci trovi con un cuore povero, non appesantito da false sicurezze, pronto e sollecito per intraprendere il viaggio verso la capanna di Betlemme.   

giovedì 15 dicembre 2016

Commento al Vangelo della IV Domenica di Avvento; 18 dicembre 2016




LA SAPIENZA DELL’UMILE GIUSEPPE




TESTO  (Mt 1,18-24) 

Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto.
Però, mentre stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: «Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele», che significa “Dio con noi”.
Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.

COMMENTO

In occasione di questo Natale 2016 Papa Francesco ha scelto per i suoi biglietti di auguri l’affresco della natività di Giotto che si trova nella Basilica inferiore di San Francesco d’Assisi in Assisi. Invito tutti a contemplarla perché un’opera d’arte non si può descrivere a parole. A partire dal Vangelo di questa Domenica voglio fermarmi però, su un dettaglio molto stimolante: in un angolo dell’affresco è rappresentato San Giuseppe, seduto, pensoso, con una mano appoggiata alla guancia, in un chiaro atteggiamento pensoso e meditativo.

Giuseppe con Maria ha custodito la vita del bambino Gesù e sebbene i 4 Vangeli non ci riportano alcuna parola da lui pronunciata, ne emerge una figura di un uomo in ascolto, docile alla volontà di Dio, e soprattutto aperto e disponibile alle imprevedibili sorprese di Dio.

Dal testo si comprende che Giuseppe elabora una sua soluzione al “problema” della gravidanza della sua promessa sposa; non è in nessun modo passivo, anzi cerca di applicare in modo, diremmo umano, le prescrizioni della legge ebraica; se fosse stato un osservatore bigotto avrebbe certamente fatto lapidare Maria. Invece Giuseppe risulta essere un uomo profondamente spirituale, osservante della legge ma al contempo in ascolto della sua coscienza e quindi capace di applicarla con giustizia, intelligenza e sapienza: non vuole coprire con la sua paternità una vita che non gli appartiene ma allo stesso tempo si fida troppo della sua promessa sposa Maria per esporla alle conseguenze della legge. 

Proprio in un cuore così onesto, umile da una parte di fronte all’autorità, sapiente nell’applicazione della legge dall’altra, il Signore trova il varco per entrare, per potergli parlare e spiegare la natura stra-ordinaria di quella maternità. 

Vi propongo di accogliere la parola di speranza e sapienza che il silenzioso San Giuseppe ci consegna: egli che ha parlato con la sua docile obbedienza ci ricordi il senso e il valore della responsabilità, della intelligenza con cui siamo chiamati ad applicare la legge di Dio, e soprattutto il valore del sacrificio fatto per amore. Vi lascio a tal proposito questa bellissima espressione di Papa Francesco: 
“Al di là di qualsiasi apparenza, ciascuno è immen¬samente sacro e merita il nostro affetto e la nostra dedizio¬ne. Perciò, se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustifi¬care il dono della mia vita.” (EG 274)

mercoledì 7 dicembre 2016

Commento al Vangelo della III Domenica di Avvento, anno A; 11 dicembre 2016




L’ONESTÀ DI UN DESIDERIO
  

TESTO (Mt 11,2-11)  

In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». 

Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: “Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via”.

In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui».

COMMENTO

Dal carcere Giovanni Battista manda a chiedere a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» Sembra strano ma anche Giovanni Battista ha avuto bisogno di rassicurazioni! Proprio lui che ha inaugurato la venuta di Gesù dicendo che Questi sarebbe venuto con un Battesimo di Spirito Santo e fuoco, per “pulire la sua aia”, raccogliere il grano buono e bruciare la paglia.

 Forse anche Giovanni rimase stupito dai suoi gesti di misericordia verso i peccatori, da quel programma di vita così paradossale delle beatitudini. Forse anche per Giovanni lo stile di Gesù non corrispondeva esattamente alla sua immagine di Messia che doveva porre la scure alla radice degli alberi per tagliare e bruciare, e quindi venire a dire e realizzare una parola di giudizio definitivo. Ma le vie di azione di Dio sono sempre imprevedibili come disse Isaia: “«Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie», dice il SIGNORE. «Come i cieli sono alti al di sopra della terra, così sono le mie vie più alte delle vostre vie, e i miei pensieri più alti dei vostri pensieri. (Is 55,8-9)

Questo non toglie nulla alla santità e alla grandezza di Giovanni; anzi egli è grande perché mette tutto se stesso nella ricerca del centro della sua fede, scegliendo di vivere nel deserto lontano dai riflettori delle opinioni della gente, non concedendo alcuna attenzione all’effimero, pagando di persona la coerenza del suo annuncio con la prigionia.
Gesù offre una risposta che chiede il coinvolgimento di chi ascolta. 
Avremmo preferito una risposta “si o no”, in questo caso “si”, ma Gesù invece invita a leggere i segni, a comprendere il significato delle sue guarigioni, obbliga a confrontare tutto quello che fa con le profezie dell’Antico testamento: in altre parole Gesù dialoga non solo con Giovanni ma anche con ognuno di noi, chiedendo l’onestà del cuore per guardare i segni, tanti e forse trascurati, attraverso i quali il Signore ci parla ancora oggi. 

I discepoli vedevano le guarigioni di Gesù, avevano udito anche le profezia di Isaia che annunciava esattamente quelle guarigioni come segni della venuta del Messia-Salvatore. Anche noi abbiamo visto e udito la testimonianza di fede di tante persone, certo in mezzo anche a tante contro-testimonianze, ma chi ha operato meraviglie nel nome del Signore non potrà mai essere smentito dalla piccineria degli ipocriti. Chi non vola non potrà mai smentire la verità di chi dice che volare è possibile dimostrandolo con i fatti.

Gesù non solo non rimprovera la domanda di Giovanni, ma anzi ribadisce la grandezza di Giovanni, e tuttavia ammonisce a non riporre troppa fiducia sui suoi aspetti umani di grandezza, perché “il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». La grandezza di Giovanni non è tanto nel suo digiunare, vestire di pelli di cammello, mangiare cavallette, vivere nel deserto, quanto nella sua totale umiltà, piccolezza, con cui si è messo in attesa del Messia. Non sono anzitutto i nostri sforzi che producono la salvezza ma la Grazia che viene dall’Alto e che va accolta tuttavia con premura e sincero desiderio di verità.

giovedì 1 dicembre 2016

Commento al Vangelo della II Domenica di Avvento, anno A; 4 dicembre 2016



Giovanni, la sirena della salvezza



TESTO ( Mt 2,1-13 )

In quei giorni, venne Giovanni il Battista e predicava nel deserto della Giudea dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!». Egli infatti è colui del quale aveva parlato il profeta Isaìa quando disse: «Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!».

E lui, Giovanni, portava un vestito di peli di cammello e una cintura di pelle attorno ai fianchi; il suo cibo erano cavallette e miele selvatico. Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.

Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque un frutto degno della conversione, e non crediate di poter dire dentro di voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 
Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».


COMMENTO

“Razza di vipere!”. Giovanni Battista non brilla per diplomazia. La sua parola di giudizio, tagliente come una spada a doppio taglio, viene a preparare la strada al Messia, a preparare e disporre i cuori alla verità della salvezza di Gesù Salvatore.

Giovanni è voce del Messia che sta per iniziare la sua missione, ecco perché si permette gli stessi accenti forti e pungenti, specialmente nei confronti di quei sadducei e farisei che rappresentavano le autorità in campo laicale e sacerdotale del popolo ebraico.

“Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!” grida Giovanni. La sua parola è un appello urgente, la sua voce anticipa la voce e la presenza di Gesù e invita al cambiamento di vita, al risveglio, come abbiamo anche ascoltato nel Vangelo di Domenica scorsa. Non c’è tempo da perdere, occorre rapidamente adeguarsi al nuovo che viene; il cambiamento è urgente perché Gesù è l’ultima chiamata per il Regno di Dio, per incamminarci nella via della vita. I giudei ascoltano nell’esortazione di Giovanni, per il momento, solo una voce. 

Per dare un’immagine, pensiamo cosa succede al passaggio di un mezzo di soccorso, un’ambulanza ad esempio: la prima cosa che si percepisce è il rumore assordante della sirena che mette in allerta, chiede attenzione, spazio, disponibilità ad arrestarsi, e in un momento successivo vediamo arrivare un mezzo a tutta velocità e ne capiamo la provenienza e la direzione.

In modo simile Giovanni richiama, grida, annuncia la salvezza imminente, ma il suo richiamo è anche grido di allarme per chi non si mette in ascolto, soprattutto per chi non farà frutti degni di conversione, per coloro cioè che accolgono la legge solo in modo esteriore, formale continuando ad aggirarne il senso profondo: la giustizia, la misericordia.

La severità del precursore Giovanni non è da temere, ma da considerare un’opportunità, perché il Signore non vuole assolutamente che l’uomo fallisca l’appuntamento decisivo, unico, ultimo con la sua misericordiosa che si fa carne, esperienza di vita nella persona di Gesù.

“Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” dice ancora Giovanni. Il frutto sarà opera anzitutto della Grazia di Cristo Gesù ma anche della buona disposizione dei cuori; infatti ogni terreno fertile non potrà non dare la sua resa in proporzioni variabili, ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta per uno, perché si realizzi la profezia di Isaia:
Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, affinché dia seme al seminatore e pane da mangiare, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto, senza aver compiuto ciò che io voglio e condotto a buon fine ciò per cui l'ho mandata. Ogni mia parola non ritornerà a me senza operare quanto desidero, senza operare ciò per cui l’avevo mandata” ( Is 55,10-11 ).

mercoledì 23 novembre 2016

Commento al Vangelo della I Domenica di Avvento; 27 novembre 2016



Un sotto fondo spirituale


 TESTOMt 24,37-44 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Come furono i giorni di Noè, così sarà la venuta del Figlio dell’uomo. Infatti, come nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti: così sarà anche la venuta del Figlio dell’uomo.  

Allora due uomini saranno nel campo: uno verrà portato via e l’altro lasciato. Due donne macineranno alla mola: una verrà portata via e l’altra lasciata.

Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà. Cercate di capire questo: se il padrone di casa sapesse a quale ora della notte viene il ladro, veglierebbe e non si lascerebbe scassinare la casa. Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell’ora che non immaginate, viene il Figlio dell’uomo».

COMMENTO

Con questa Domenica iniziamo un nuovo tempo e un nuovo anno liturgico. Ci si presenta subito un piccolo paradosso, o se vogliamo una quasi contraddizione: se sapessimo quando viene un ladro, dice Gesù, veglieremmo per non farci trovare impreparati, ma siccome non sappiamo quando il ladro viene, e per di più ci dice che verrà quando non immaginiamo … sarebbe logico aggiungere che non vale la pena vegliare tutto il tempo, quanto meno per non morire di insonnia!
 Siamo abituati abbastanza frequentemente a sentire di furti nelle case ma chi di noi veglia tutto il tempo? Anzi forse il contrario: prendiamo qualche precauzione e col cuore in pace, continuiamo a svolgere le nostre attività e a dormire sonni più o meno tranquilli. 

Capiamo intuitivamente che la vigilanza richiesta del Signore è di altro tipo: è una vigilanza che significa sobrietà del cuore, consapevolezza che questa vita giunge ad un termine, attenzione a vivere ogni aspetto della vita con una prospettiva particolare, quella della fede in Cristo Gesù, che tornerà a completare l’opera della nostra salvezza.
Perché mai di due donne che macineranno alla mola una sarà presa e l’altra lasciata? E di due uomini che saranno nel campo uno sarà preso e l’altro lasciato? La vigilanza richiesta dal Signore sembra proprio essere affare del cuore, atteggiamento interiore che detta la motivazione di ogni azione, quale essa sia.

San Domenico Savio (morto all’età di appena 14 anni) era uno dei tanti ragazzi che stava nell'Oratorio con San Giovanni Bosco. Ad un tratto, mentre Domenico giocava a pallone, don Bosco gli rivolse questa domanda “E se tu sapessi di morire in questo momento cosa faresti?”; Domenico rispose: “continuerei a giocare”. Quando la nostra vita cammina verso il bene quello che noi facciamo ci condurrà sempre al bene. Lavorare nel campo, girare la mola, giocare a pallone, tutto può essere vissuto con il desiderio di restare alla presenza del Signore Gesù.

venerdì 18 novembre 2016

Guai ai profeti di sventura !




Tutto posso in Colui che mi dà la forza ( Fil 4,13 )



"Geremia, cosa vedi? Vedo un ramo di mandorlo" (Geremia 1,11)
In ebraico il mandorlo è chiamato 'colui che veglia', il primo risvegliato dall'inverno, colui che ha gli occhi attenti, che fiorisce anche quando ancora punge il gelo. Quello che vede Geremia non è un fiore del ramo nella bella stagione, ma nel momento più duro dell'anno, quello delle gelate improvvise. In questa stagione difficile dobbiamo avere occhi attenti ai segni che sono già dentro l'inverno, saper cogliere ciò che nasce dal passaggio verso la primavera. 

Papa Giovanni aprì il Concilio dicendo di non dare ascolto ai "profeti di sventura", ma di prestare orecchio ai "segni dei tempi", di non intralciare il loro divenire come la terra accompagna i germogli a primavera. Dobbiamo scorgere i segni che posseggono la trasparenza dell'alba originale, la luminosità di una tenerezza soprannaturale.

In tempi di crisi ci è chiesto di vivere i gesti di Geremia che, in anni di esilio e di deportazione, invitava a piantare vigne, a costruire case. Vivere non è solo una crescita continua, ma anche la capacità di aderire alla vita nonostante ciò che la contraddice, le sue paure, le sue crisi, i suoi momenti di apparente sterilità. 

Ci sono attimi che rendono nuovo il mondo non tanto perché aggiungono qualcosa di nuovo, ma perché sprofondano fino all'origine, lì dove la diversità è armonia.
Il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi mutiamo, si fa nuovo se l'uomo si fa nuova creatura, si imbarbarisce se scateni il peggio in te. 
Oggi la nostra vita è un continuo migrare verso un mondo perduto e disorientato di frammenti che non sappiamo più utilizzare. Dio, invece, è sempre molto attento ai frammenti: agli occhi, ai gesti, a come si fanno e si dicono le cose, al granello di senape, alla pecora perduta, allo spicciolo della vedova.

In ogni momento di crisi Dio ci chiede di partire dai frammenti e dai dettagli per riprendere il cammino e la nostra dignità. Ci chiede una vera partecipazione al mistero della vita. Germi di novità sono nell'aria, ma scendono soltanto dove trovano una terra fertile. I germi di novità sono la bellezza e la tenerezza, il perdono e la fedeltà ad ogni giorno: fragili gesti che hanno la forza di rimettere in piedi la nostra vita. 

Fedeltà ad ogni giorno vuol dire esserci, stare dentro la concretezza della vita. Occorrono oggi testimoni fedeli che vadano oltre la superficialità e sappiano stare dentro la vita. Testimoni che non imprigionano Dio nel loro concetto di onnipotenza, che non lo sfigurano erigendolo a giustiziere implacabile, ma che coltivano pazienza e vigilanza.
Bella la fedeltà al cammino dell'uomo di Gesù risorto che si avvicina ai discepoli di Emmaus, si fa compagno di viaggio, si interessa della loro vita, li lascia liberi di scegliere fingendo di andare oltre, e solo alla fine spezza il pane con loro.

Bella la fedeltà di Ruth verso Noemi quando dice: "Non insistere perché ti abbandoni e torni indietro senza di te, perché dove andrai tu, andrò anch'io".(Rut 1,16)
La fedeltà a sé e all'altro è la capacità di "serbare e custodire", è amore che ha bisogno di tempo per crescere, di promesse reciproche da mantenere, di scelte che hanno il loro prezzo.

Anche quando le cose sembrano non cambiare, anche se tutto sembra continuare come prima, chi è fedele scruta l'orizzonte, fiuta l'aria, getta il seme affidandolo alla terra e il sogno di futuro è tutto dentro questa minuscola occasione che può fare del lampo una chiarezza, della scintilla una luce.

Luigi Verdi
da Il domani avrà i tuoi occhi

giovedì 17 novembre 2016

Commento al Vangelo della XXXIV Domenica del TO, Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'Universo, 20 novembre 2016



PARADISO A “Km ZERO” !


TESTO  (Lc 25,35-43)

35 Il popolo stava a guardare. E anche i magistrati si beffavano di lui, dicendo: «Ha salvato altri, salvi se stesso, se è il Cristo, l'Eletto di Dio!» 36 Pure i soldati lo schernivano, accostandosi, presentandogli dell'aceto e dicendo: 37 «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso!»
38 Vi era anche questa iscrizione sopra il suo capo: questo è il re dei giudei.

39 Uno dei malfattori appesi lo insultava, dicendo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» 40 Ma l'altro lo rimproverava, dicendo: «Non hai nemmeno timor di Dio, tu che ti trovi nel medesimo supplizio? 41 Per noi è giusto, perché riceviamo la pena che ci meritiamo per le nostre azioni; ma questi non ha fatto nulla di male». 42 E diceva: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno!» 43 Ed egli gli disse: «Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso».


COMMENTO

… Ed è così che dopo un anno giubilare sulla misericordia di Dio in cui abbiamo ascoltato abbastanza spesso parlare di indulgenze plenarie come possibilità di azzerare la pena temporale (cioè il purgatorio), l’ultimo vangelo di questo anno santo ci presenta Gesù nell’unico episodio in cui pronuncia la parola “paradiso” e sembra,  lo si dica con molto rispetto, “svenderlo” al primo ( secondo in ordine di apparizione ) ladrone  malcapitato accanto a lui. “Oggi tu sarai con me in paradiso”. Riascoltiamo ancora una volta le parole di Gesù; ci fa bene: “Io ti dico in verità, oggi tu sarai con me in paradiso”. 

Via diretta senza stazioni intermedie, senza purgatorio, verso la gloria del Regno di Dio, il Paradiso! Cosa avrà fatto di tanto meritevole questo ladrone, che a dire il vero si era dissociato dall’invocazione e dalla provocazione di salvezza del compagno? 
Tutti intorno sotto la croce, magistrati e soldati, a chiedere a Gesù il segno supremo della sua regalità, della sua pretesa di essere il re dei giudei: “salva te stesso!” Come dire: “scendi dalla croce e noi ti crederemo!”; invece questo malfattore non chiede salvezza, sembra addirittura accontentarsi di un semplice ricordo dando però per scontato che quel nazareno, dopo l’umiliazione e la morte sul patibolo, entrerà nel suo Regno. 

Giustamente si dice che egli è il primo uomo canonizzato, il primo uomo di cui possiamo essere sicuri che è in Paradiso. 
Gesù deve aver letto nel cuore di quest’uomo il riconoscimento della sua missione di salvatore, e d’altra parte il pentimento e il suo umile atto di affidamento, e in ogni caso il porsi in una relazione costruttiva con Lui. Potrebbe sembrare troppo facile, un paradiso troppo a buon mercato, ma la realtà e la sostanza della nostra salvezza è concentrata nella persona di Gesù, nel porre al centro della nostra vita la sua presenza. 

Ecco il merito del ladrone pentito: aver creduto fortemente che quell’uomo giusto metteva in luce tutte le proprie iniquità e che su tutto il male e su tutti i mali egli avrebbe avuto il potere di regnare in modo ultimo e definitivo. Il suo merito è quello di non aver accampato meriti, e di aver accolto la salvezza lì dove la presenza del Signore lo ha raggiunto.

Così anche per noi: la salvezza di Cristo ci raggiunge ovunque, là dove siamo, e soprattutto al colmo di ogni esperienza di delusione o di dolore. Quando tutto è perduto, e ogni salvezza umana sembra inefficace, la nostra umiltà ci può salvare, riconoscendo che in quella nostra esperienza c’è la presenza dell’umanità ferita e agonizzante di Cristo Gesù.

Dio si è fatto carne per portare fino in fondo il suo cammino di assimilazione alle sconfitte e ai dolori dell’uomo, alle sue morti quotidiane e definitive; Egli nella persona di Gesù di Nazaret non è venuto a dare spiegazioni sul dolore umano , ma semplicemente ad offrire la certezza della sua presenza; accanto, vicino e dentro ogni cuore trafitto c’è la sua presenza di morto  e risorto, per orientare diversamente la prospettiva del nostro sguardo, per saper contemplare in contro luce ad ogni esperienza di croce il nostro destino di gloria in Cristo Gesù.

mercoledì 9 novembre 2016

Commento al Vangelo della XXXIII Domenica del TO anno C; 13 novembre 2016



Le doglie di un parto


TESTO Lc 21,5-19

In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». 

Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».

Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. 
Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 

Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita».


COMMENTO

L’avvicinarsi del Regno di Dio come le doglie del parto. Questa volta lo premetto: non so di che cosa sto parlando, non ho mai partorito, però mi fido di San Paolo il quale usa proprio questo paragone: “Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo” ( Rm 8,22-23 ).

Gesù aveva detto che il regno di Dio è presente in mezzo ai suoi, presente nella realtà divino-umana della sua persona. Ma se l’amore di Dio ha regnato nella sua umanità, nei suoi gesti di misericordia, di perdono, anche nei confronti dei suoi uccisori,  non così avviene ancora nell’umanità intera e nell’integralità della realtà cosmica. Ecco perché del  Regno di Dio ancora attendiamo l’avvento definitivo, il completamento della sua instaurazione iniziata con Gesù di Nazaret. 

 E nel frattempo cosa succede? Ecco: nel frattempo viviamo il pellegrinaggio verso la nostra patria, un pellegrinaggio nel quale il vecchio mondo,  dominato ancora dalla forza del peccato, contrasta il nuovo mondo, quello radicato in Cristo, che soffre sì persecuzioni, ma che inesorabilmente avanza e avanzerà fino al raggiungimento di una pienezza definitiva alla fine dei tempi, quando Cristo tornerà per il giudizio finale, di cui parleremo settimana prossima.

Usando un’ immagine dello stesso Gesù, nel campo del mondo è stato gettato il grano buono, ma le forze del male vi hanno gettato la zizzania, e questi due semi continuano a crescere e non sta a noi la pretesa di strappare la zizzania, ma solo il compito di alimentare il grano buono offrendogli il terreno fertile del nostro cuore.
Non possiamo pensare che il raggiungimento del Regno di Dio avvenga in maniera graduale come se dovessimo attendere che progressivamente l’umanità si avvicini al Signore; invece ci dice il vangelo di oggi, il mistero del bene e del male tendereanno sempre più a confliggere e a manifestarsi sempre più chiaramente per quello che sono, bene o male. La zizzania e il grano buono si distinguono sempre di più proprio nel crescere e nell’arrivare a maturazione.

Molto chiarificante il testo del Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 677: La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso quest'ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e risurrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discendere dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male prenderà la forma dell'ultimo giudizio dopo l'ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa.

giovedì 3 novembre 2016

Commento al Vangelo della XXXII Domenica del TO anno C; 6 novembre 2016



UNA SOLA SPOSA PER SETTE FRATELLI ?


TESTO ( Lc 20, 27.34-38 )

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni sadducèi, i quali dicono che non c’è risurrezione:
«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 
Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: “Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe”. Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».


COMMENTO

Molto indefinita e labile è ormai anche tra i cristiani la fede nella risurrezione dei corpi, ma il Vangelo di questa Domenica giunge proprio nella settimana successiva al 2 novembre, commemorazione dei defunti, a rafforzare la nostra speranza nella vita eterna. 
I sadducei, differentemente dai farisei, non credevano nella resurrezione della carne e quindi pongono una sorta di domanda tranello a Gesù , proprio su tale aspetto.

 L’obiezione poteva essere anche lecita, se la resurrezione finale predicata e vissuta da Gesù fosse come quella di Lazzaro, cioè un ritorno alla vita naturale. Come può una donna,  tornando in vita, essere sposa contemporaneamente dei sette uomini con cui si era precedentemente sposata?  Il punto è che la risurrezione per la vita futura non ci riporta nella vita precedente, nel tempo e nello spazio di questo mondo, ma nel nuovo mondo, in quei cieli e terra nuovi di cui parla l’Apocalisse al capitolo 21:

 «Poi vidi un nuovo cielo e una nuova terra, poiché il primo cielo e la prima terra erano scomparsi, e il mare non c'era più. […]  Udii una gran voce dal trono, che diceva: «Ecco il tabernacolo di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro, essi saranno suoi popoli e Dio stesso sarà con loro e sarà il loro Dio.  Egli asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non ci sarà più la morte, né cordoglio, né grido, né dolore, perché le cose di prima sono passate».

In fondo, dice Gesù, anche Mosé ha ricevuto questa testimonianza quando Dio gli si è rivelato come il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. E siccome Dio non può essere un Dio dei morti ma dei viventi, allora Abramo, Isacco e Giacobbe sono vivi.

Ovviamente però la parola più decisiva riguardo la fede cristiana nella risurrezione della carne è la stessa risurrezione di Gesù di Nazareth. Egli appare con le sue piaghe nella sala dove i suoi apostoli erano riuniti alla sera di quel primo giorno della settimana ebraica che noi ora chiamiamo Domenica (in onore del nostro Dominus = Signore); l’evangelista ci dice che egli entra a porte chiuse per farci capire che appunto il suo corpo era un corpo nuovo, glorificato, esattamente il suo ma non più appartenente alle dimensioni e condizionamenti di questo mondo. Per questo il suo corpo appariva e spariva liberamente, perché ormai la sua carne era stata glorificata, e il suo corpo pur rimanendo visibile e concreto, era ormai divenuto un corpo spirituale. Ancora San Paolo ci viene in aiuto:

Ci sono anche dei corpi celesti e dei corpi terrestri; ma altro è lo splendore dei celesti, e altro quello dei terrestri. Altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna, e altro lo splendore delle stelle; perché un astro è differente dall'altro in splendore.
 Così è pure della risurrezione dei morti. Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita glorioso; è seminato debole e risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale. Se c'è un corpo naturale, c'è anche un corpo spirituale. ( 1 Cor 15,40-44 ) 

Dunque come si può credere che non esista resurrezione dei corpi? Direbbe San Paolo:  
Ma se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato; e se Cristo non è stato risuscitato, vana dunque è la nostra predicazione e vana pure è la vostra fede. Noi siamo anche trovati falsi testimoni di Dio, poiché abbiamo testimoniato di Dio, che egli ha risuscitato il Cristo; il quale egli non ha risuscitato, se è vero che i morti non risuscitano  ( 1 Cor 15, 13-15 ). 

martedì 25 ottobre 2016

Da dove cominciare per redimere questa economia?




Un interessante contributo di Leonardo Becchetti nell'editoriale di Avvenire del 25 ottobre 2016


Il lavoro sempre più voucherizzato, i call center in crisi perché i precari non lo sono abbastanza, i fattorini di Foodora che portano la pizza a domicilio a salari stracciati e capiscono che l’unica disperata forma di protesta che può far presa è l’appello ai consumatori a non comprare i loro prodotti. Che cosa sta succedendo? Guardatevi intorno e vedrete nei paesaggi delle nostre città e delle nostre periferie il trionfo dell’economia e contemporaneamente il suo fallimento nel regalarci felicità e pienezza di senso di vita. 
Fallimento figlio del suo grave peccato originale. Distese senza fine di ipermercati, centri commerciali e negozi traboccanti di prodotti di ogni genere, colmi di tutte le varietà possibili vendute a prezzi stracciati, al massimo del sottocosto possibile.

Il mondo è diventato esattamente ciò che quel gruppo di filosofi morali che inventò l’economia moderna più di due secoli fa voleva che diventasse: il trionfo del consumatore. L’obiettivo era nobilissimo e tutt’altro che meschino: rendere l’umanità felice. Il risultato assolutamente di successo se valutato in termini di coerenza con le premesse. 

Peccato però che la funzione di felicità utilizzata (l’ipotesi su cosa rendesse l’uomo felice) fosse sbagliata. I fondatori dell’economia partirono infatti da un’ipotesi allora non verificabile empiricamente e rivelatasi poi del tutto fallace: una visione di uomo (l’homo economicus) la cui funzione di utilità/felicità indicava come principale, se non unica, fonte di soddisfazione l’aumento dei beni acquistabili date le proprie possibilità di spesa: in parole povere la felicità vuol dire rendere sempre più pieno il carrello del supermercato (il «paniere dei beni» usando il linguaggio più antico con cui si insegna l’economia all’università). Sarebbe stata la concorrenza di mercato lo strumento decisivo per condurci al paradiso date queste premesse e questa funzione, ovvero quella mano invisibile capace di trasformare l’avidità dei singoli produttori in una corsa al ribasso dei prezzi che avrebbe generato il massimo surplus dei consumatori. Una somma di avidità trasformata automaticamente in bene di tutti dalla mano invisibile del mercato.

È andata esattamente così. Peccato – come si diceva – che qualche tempo dopo gli studi empirici sulla felicità (e forse sarebbe bastato il buon senso comune smarrito) hanno cominciato a smentire clamorosamente le premesse ipotizzate dai fondatori dell’economia. Questi studi ci dicono quasi unanimemente che la felicità degli esseri umani non dipende affatto dalla quantità di beni consumati quanto piuttosto dalla nostra generatività, dalla qualità della nostra vita di relazioni, dalla dignità e creatività del nostro lavoro, dalla bellezza dell’ambiente in cui viviamo dalla nostra salute. 

Il paradosso in cui viviamo è che gli effetti indiretti della prodigiosa macchina messa in moto per produrre il massimo numero e varietà di beni ai minori prezzi possibili, figli di una teoria che ha messo fuori dai radar tutto quello che è fondamentale per vivere (relazioni, bellezza e qualità dell’ambiente, dignità del lavoro, salute), ha avuto purtroppo molto spesso l’effetto di produrre effetti indiretti negativi su tutte queste altre dimensioni ignorate, ma in realtà fondamentali per la nostra felicità. Abbiamo imparato tristemente a nostre spese che dietro il sottocosto (il prezzo basso non-importa-come) c’è molto spesso lo sfruttamento del lavoro, i rischi per la salute, la distruzione della sostenibilità ambientale, la messa in secondo piano della vita di relazioni. Il peccato originale degli economisti ci ha portato a vivere in una società dove siamo quasi onnipotenti, viziati e compulsivi come consumatori, ma sempre più fragili e a rischio come lavoratori, crescentemente poveri di relazioni e alla disperata ricerca di soluzioni per tutelare qualità ambientale e salute.

Come si può intervenire per correggere il bug, l’errore iniziale di programmazione di questa macchina? In estrema sintesi mettendoci gli occhiali giusti per misurare il benessere e prendendo il toro per le corna. Utilizzando cioè il massimo potere che il sistema ci dà, quello di scegliere cosa consumare e risparmiare, "votando col portafoglio" – come non mi stanco di ripetere – per riequilibrare il tutto, ridando valore e dignità al valore delle dimensioni invisibili, ma fondamentali, per il senso del nostro vivere. Dobbiamo pertanto pretendere prima di essere informati nel modo migliore possibile, per scovare poi il valore ambientale, relazionale, di dignità di lavoro e di salute incorporato nei prodotti e premiare con le nostre scelte quelli all’avanguardia in queste dimensioni. È il mercato il dominus e il mondo lo cambiamo solo cambiando il mercato. Accorgendoci che in fondo non è un’entità astratta e lontana perché il mercato siamo noi quando consumiamo e risparmiamo.

Gli ingredienti di un futuro migliore già esistono e stanno crescendo: indicatori di benessere equosostenibile, finanza e banche etiche, commercio solidale, imprese sociali e cooperative vecchie e nuove, benefit corporation, gratuità e dono che escono dalle dimensione squisitamente religiosa e diventano sempre più elementi centrali e fondamentali della vita sociale ed economica. Vanno accompagnati da una battaglia culturale sui media e sui social per sconfiggere rancore e "passioni tristi" ispirate da insicurezza sociale e povertà spirituale per rendere tutti consapevoli del potenziale enorme di cambiamento che è nelle nostre mani. La sfida è già iniziata. E tempo di prenderla sul serio.

Commento al Vangelo della XXXI Domenica del TO, anno C; 30 ottobre 2016




L’importante non è essere alti ma all’altezza


TESTO  (Lc 19,1-10) 

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 

Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 

Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».


COMMENTO

Zaccheo aveva rubato molto, lo confessa lui stesso a Gesù quando questi varca la soglia della sua casa. D’altronde il testo ci dice che era capo dei pubblicani, quindi aveva sotto di sé altri pubblicani dipendenti, altri esattori delle tasse che per conto di Roma riscuotevano imposte ai loro concittadini. Zaccheo  cerca però lo sguardo di Gesù, intuisce che in quella presenza ci potrebbe essere una novità, una rottura di continuità con una vita che sicuramente iniziava a disgustarlo, ad annoiarlo, con tutto il fardello delle disonestà commesse e la consapevolezza di essersi approfittato dei suoi stessi concittadini, vendendoli all’odiato potere romano. 

L’atteggiamento di Zaccheo ci è descritto con tre azioni: “cercava di vedere, corse avanti, salì su un sicomoro”; tuttavia  sembra essere piuttosto Gesù che lo attendeva, che avevo deciso di entrare a casa sua. 
 Zaccheo, insomma, ci mette del suo per essere raggiunto e toccato da quella presenza. La sua bassezza, simbolo in fondo della sua bassezza morale, e la folla  gli impedirebbero di realizzare questo incontro ma egli tenta tutto quello che umanamente gli è possibile, forse anche mettendosi in ridicolo davanti a  persone abituate a vedere invece un uomo sicuro e ben radicato nella sua autorità, e che certamente non aveva bisogno di nessuno.

“Zaccheo, scendi subito”, dice Gesù. Come poteva conoscere il suo nome? Non lo sappiamo ma in fondo è questo il fascino dell’episodio: Gesù conosceva e aspettava il piccolo Zaccheo già da prima e lo invita a scendere per poter entrare nella sua casa e portargli il bene più prezioso: la sua salvezza. Zaccheo, uomo basso per statura e moralità, coglie l’opportunità e si dimostra così all’altezza della situazione.

Come non ritrovarci in questo pubblicano? Noi che cerchiamo in tutti i modi di "salire", di acquisire titoli di merito nella società, nell’ambiente di lavoro, noi che cerchiamo di salire anche nella nostra ricerca religiosa: siamo invece dinanzi ad un Dio fatto uomo, sceso tra noi, che ci chiede di scendere e di accoglierlo in casa: un Dio che ci chiede di scendere dai nostri piedistalli artificiali e di accoglierlo nella nostra esistenza, con le sue ristrettezze di cuore e con le sue piccinerie. Il Signore desidera abitare la nostra vita, quale essa sia, e quale ne sia lo stato morale perché vuole guarirla, risollevarla, redimerla, ridonarle lucentezza e gioia.  

Quanto sono belle e vere a tal proposito le parole di Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium n. 3:
 “ «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore». Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: «Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te”. 

lunedì 24 ottobre 2016

I Francescani e i monti di pietà



Quando si coglie l'esigenza pressante del Vangelo a diventare "carne", la creatività tocca tutti gli ambiti dell'umano


Può esistere un sistema in cui il credito non costa? Papa Francesco non ha dubbi: “Il denaro deve servire non governare”. Più difficile capire come agire in un sistema globalizzato in cui domina l’utilitarismo e la speculazione finanziaria sembra prevalere sulla produzione. È vero che c’è un gran discutere dei danni della speculazione finanziaria, ma come si fa a elargire il credito senza interessi? Sono i temi che ZENIT ha affrontato con il professor Oreste Bazzichi, docente di filosofia sociale ed etica economica alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum. Bazzichi è anche autore di molti libri su questi temi, gli ultimi pubblicati sono:  “Dall’economia civile francescana all’economia moderna, Una via all’umano e al civile dell’economia” (Edizioni Armando Editore 2015) e “Economia e scuola francescana” (Edizioni Libreria Universitaria.it 2013). Le prime due interviste al prof. Bazzichi sono state pubblicate da ZENIT  il 7 ed il 16 di ottobre.


Come funzionavano i Banchi di Pegno e perché i francescani ne favorirono nascita e diffusione? Per quanto veniva moltiplicato il valore del pegno per l’elargizione del credito?

In quel momento storico l’Italia stava attraversando il passaggio culturale dal Medioevo al Rinascimento e furono molti i fattori che accrebbero le richieste di denaro e contestualmente il bisogno di credito di sopravvivenza. La piaga dell’usura era dilagante e opprimeva le genti più povere delle campagne e delle città. La felice intuizione dei francescani fu quella di istituire i Monti di Pietà, organismi innovativi in grado di offrire credito per i bisogni di chiunque lo richiedesse, purché avesse da offrire in pegno un qualche bene mobile, anche di scarso valore, oppure che riscuotesse di “buona fama di onestà, di fiducia e di fede cristiana” nella comunità.

L’istituzione si formò con i proventi di donazioni e di elemosine e perciò prese il nome di Monte di Pietà. Il tasso non doveva superare il 5/6%. Dagli “Statuti” apprendiamo che, per esempio, a Perugia non si prestava più di sei fiorini al valore di 40 bolognini ciascuno e per il periodo di sei mesi, mentre nella vicina Assisi se ne prestavano soltanto cinque e nell’arco di nove mesi; a Spoleto, invece si prestava fino a quattro fiorini per un periodo di un anno. Va precisato, comunque, che si trattava sempre di piccoli prestiti, per lo più dietro presentazione di un pegno che valesse almeno un terzo in più della cifra ottenuta. Tutto questo in nome del bene comune, santificando una pratica, quella creditizia, che faceva riferimento alla disponibilità del cristiano a sacrificare per gli altri qualcosa di proprio.

Da subito l’iniziativa francescana si distinse per l’impulso esistenziale e fornì una valida alternativa in termini di lotta all’usura.  Con le loro attività i Monti Di Pietà, ora legati al credito su pegno, ora orientate a garantire una dote alle donne più povere o a contribuire al mantenimento di un ospedale o orfanatrofio, seppero adeguarsi ai cambiamenti socio-economici in tutta Europa; e proprio a questa capacità di adeguamento e di flessibilità va ricondotta la loro lunga durata fino alla istituzione delle Casse di Risparmio nella seconda metà dell’Ottocento.

L’usura è stata condannata sin dai tempi del mondo greco-romano, tuttavia si trattava di condanne piuttosto “teoriche”, e la prima vera reazione si ebbe solo con l’opera francescana, in armonia col precetto del vangelo di Luca “Mutuum date nihil inde sperantes” (6,25) che, da una prima interpretazione, si riteneva vietasse il prestito a interesse, a maggior ragione se usuraio. La teoria della produttività del capitale e del valore economico e del giusto prezzo, elaborata da fra Pietro di Giovanni Olivi e dai suoi confratelli, legittimò eticamente l’erogazione del credito a modico interesse, dando una forte accelerazione al sistema sociale ed allo sviluppo economico, che era statico.

Nel 1515 numerosi contrasti tra giurisprudenza e teologia sull’argomento vennero sanati grazie all’emanazione della Bolla “Inter multiplices” da parte del Concilio Laterano V. La Bolla Di Leone X , pur confermando la condanna della Chiesa contro il flagello dell’usura, in quanto ribadiva l’inapplicabilità per ragioni sociali del prestito a interesse, rappresentò al tempo stesso il primo riconoscimento ufficiale dell’attività creditizia praticata dai Monti, in quanto li legittimava ad applicare una modesta somma a titolo di rimborso delle spese, per queste e per altri tipi di operazioni. La massiccia diffusione di questi istituti avvenne a partire dai grandi centri dell’Italia centrale: Perugia fu il primo nel 1462, poi Orvieto, Gubbio, Pesaro, Foligno, Terni, Assisi, Spoleto, Viterbo, Firenze, Roma, Genova, Mantova, Pavia sino a espandersi in tutto il mondo “cattolico”.

Quali erano i benefici per l’economia e per la società di questo modo di intendere il credito?

Dopo l’istituzione dei Monti di Pietà si riscontrò una ripresa socio-economica delle città, se non addirittura di una uscita dalla povertà e dalla miseria dei ceti più deboli, allora costretti a ricorrere a prestiti usurai. Essi modificarono la pratica creditizia soprattutto nella direzione culturale del modo di concepire il credito: una istituzione creditizia al servizio di coloro che erano in grado soprattutto di offrire un pegno come garanzia. Non va dimenticato che i servizi dei banchi privati praticavano un alto tasso di interesse a causa della rarità del denaro liquido e per i molti rischi connessi a tale attività.

L’attività produttiva ridette dignità e spazio nella società, sottraendo i cittadini a quel degrado psicologico e morale cui l’inerzia e l’assistenzialismo possono condurre. Questo modello relazionale e sussidiario si rifletteva nell’architettura stessa della città: la piazza (intesa come agorà), la cattedrale (sede vescovile e cattedra della dottrina), il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni delle arti e dei mestieri (organizzazione del lavoro manifatturiero), il mercato (luogo delle contrattazioni e degli scambi), i palazzi della borghesia, i conventi degli Ordini religiosi e, infine, le chiese, dove avevano sede i servizi sociali e di solidarietà promossi e praticati dalle Confraternite. Attraverso questi luoghi concreti e visibili si coltivavano le “virtù civiche”, che definivano la società propriamente civile, le cui principali caratteristiche erano: la fiducia reciproca, la sussidiarietà, la solidarietà, la fraternità, il rispetto delle idee altrui, il credo religioso e la pratica delle virtù cristiane, la competizione di tipo cooperativo. Se questa fu la via per sostenere l’attività economica del XIV e XV secolo, non è fuori luogo riproporla oggi. Leggi di mercato e principi solidaristici possono andare insieme, contro tutte le obiezioni, a condizione che il peso dei problemi e il desiderio di risolverli si trasformino in pungolo a cercare altre vie nel quadro della giustizia.

mercoledì 19 ottobre 2016

Commento al Vangelo della XXX Domenica del TO; 23 ottobre 2016




… Perché il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva


TESTO  ( Lc 18,9-14) 

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

COMMENTO

Il pubblicano della parabola avrebbe voluto alzare gli occhi al cielo e rivolgersi a quel Dio che aveva probabilmente iniziato a conoscere sul serio e che la sua gente in qualche modo gli aveva descritto; lui però non osa, resta a testa bassa, e si rivolge a Dio con un atto di prostrazione come per dire che non sarebbe stato neppur degno di stargli dinanzi. La sua parola “O Dio abbi pietà di me peccatore” è anche la prima parola che pronunciamo tutti noi quando entriamo nel tempio della celebrazione liturgica. Nella Santa Messa noi ci introduciamo al cospetto di Dio e allora il primo atteggiamento non può che essere quello di chi si sente mancante, bisognoso di comprensione e di perdono; per questo ripetiamo “Signore pietà di noi!” Anche se forse non abbiamo grossi pesi sulla coscienza, il chiedere pietà alla misericordia divina ci fa proprio entrare in piena sintonia col cuore del Signore Gesù che ha invocato pietà su tutti noi dall’alto della croce. 

Anche Gesù, morto fuori dalle mura di Gerusalemme, ha accettato di essere lasciato a distanza dai luoghi santi della religione ufficiale, morendo come un malfattore in croce. Il pubblicano della parabola potrebbe essere l’uomo che dopo aver mercanteggiato su tutto, e fatto compromessi a qualsiasi costo, alla fine riconosce la verità di un amore gratuito, di una compassione e di una misericordia che non si compra, che può essere accolta e goduta solo da un cuore umilmente consapevole dell’infinitezza del dono.
Il fariseo prega tra sé e sé. Ringrazia Dio, ma parla e prega tra sé e sé, come se quel Dio a cui si rivolge non fosse il modello di cui lui è immagine e somiglianza ma piuttosto un Dio ricalcato su criteri e modelli di onestà e giustizia personali. 

La parabola immediatamente prima il Signore aveva parlato di un giudice iniquo. Questo fariseo pur non essendolo manifestamente, lo è perché non si appoggia sul suo rapporto con Dio, ma usa Dio per paragonarsi, per restare al di sopra di un altro. Il mettersi alla presenza di Dio non lo mette in comunione con l’uomo, ma anzi lo allontana. Egli prega in piedi e ringrazia Dio di non essere come quel peccatore ma, dice Gesù, non torna a casa giustificato, e forse ancor più lontano di prima dalla giustizia del Regno dei Cieli. Allontanato da parte di chi? In fondo dalla sua stessa incapacità di uscire da sé stesso, dalla sua stessa incapacità di stabilire una relazione vera, filiale, sincera, con il Signore di ogni misericordia. 

Nell’atteggiamento del pubblicano fermatosi a distanza, ma che viene accolto dalla giustizia e dalla benevolenza divina, sentiamo la risonanza delle parole del Magnificat di Maria di Nazareth “L’anima mia magnifica il Signore … perché ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore … e ha innalzato gli umili”. 

mercoledì 12 ottobre 2016

Commento al Vangelo della XXIX Domenica del TO anno C; 16 ottobre 2016



LO STALKING DELLA VEDOVA

TESTO  ( Lc 18,1-8 )

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 

Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».


COMMENTO

Nella parabola la vedova sembra vittima di un’ingiustizia umana, cioè di un mancato rispetto di un accordo umano, di una legge che regola i suoi rapporti con gli altri. Ma da questo episodio in cui il giudice, di per sé ingiusto, accetta di ristabilire un’umana equità tra la vedova e il suo avversario, Gesù giunge alla conclusione: a maggior ragione quanto più il Padre nostro non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di Lui? Ma cosa gridano (o cosa dovrebbero gridare) giorno e notte gli eletti al Signore? Cosa è la giustizia nei rapporti tra Dio e l’uomo?

 “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”. È la quarta beatitudine proclamata da Gesù. Fame e sete: due esigenze primarie, vitali. Ma anche la giustizia, soprattutto la giustizia di Dio è un bene ancora più primario perché eterno, tanto che Gesù dirà “cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose ( le cose da mangiare , da bere e da vestire ) vi saranno date in aggiunta” ( Mt 6,33 ) . Pensate: nelle parole di Gesù la ricerca la giustizia del Regno di Dio viene ancor prima del cibo, eppure così essenziale! Cosa è dunque la giustizia?

 La giustizia che Dio ci chiede è di fidarci di Lui, delle sue promesse, di restare sempre in una relazione viva con Lui. Abramo ebbe fede, e Dio glielo accreditò come giustizia ( cfr Gen 15,6 ). 
Dio è sommamente giusto perché adempie le sue promesse, come ha dimostrato concedendo ad Abramo una innumerevole discendenza, e allora la nostra giustizia sarà quella di fidarci di Lui, delle sue promesse irrevocabili. Se la vedova è stata esaudita per la sua insistenza da un uomo malvagio, quanto più il Signore disseterà la nostra sete di felicità, di una vita autentica, sensata, interessante da vivere? La fede è la ricerca di un incontro personale con il Signore che è morto per il desiderio di donarci il suo perdono e la vita eterna. La nostra vita senza fede è una perenne vedovanza, una perenne ricerca di un affetto che solo la relazione con Dio Padre ci può dare e che non potrà mai essere sostituita da mille rapporti umani o da mille cose. 

Accogliamo dunque l’invito di Gesù a tenerlo nel cuore sempre, come uno sposo custodisce costantemente nel cuore il pensiero della sua sposa. La nostra preghiera sarà sempre esaudita, perché il suo primo effetto sarà proprio quello di darci lo sposo del nostro cuore: la percezione della presenza del Signore accanto a noi. 

mercoledì 5 ottobre 2016

Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO anno C; 9 ottobre 2016




Dieci miracolati, un solo salvato

TESTO ( Lc 17,11-19 ) 

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. 
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».


COMMENTO

Quando Giovanni Battista invia i suoi discepoli da Gesù per chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro” , Gesù rispose, dopo aver guarito molti: “andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati … “ Nella tradizione ebraica era quindi presente la convinzione che all’arrivo dei tempi del Messia, di Colui appunto che doveva venire, la lebbra sarebbe scomparsa. Anche perché si vedeva in essa un certo legame con la colpa morale, e se il Messia doveva liberare e restaurare Israele , doveva necessariamente anche liberarlo da questa mortale malattia.
Gesù non fa distinzioni nel suo atto di pietà: tra i dieci lebbrosi c’era anche un ebreo scismatico, cioè un samaritano; anzi proprio lui decide di tornare indietro glorificando Dio e prostrandosi ai piedi di Gesù per ringraziarlo.

Non possiamo dedurre necessariamente che gli altri nove fossero giudei osservanti, ma l’episodio è un amaro ammonimento per tutti noi, per le nostre false pretese di giustizia. Il samaritano che sapeva di non essere in comunione con i giudei torna a prostrarsi ai piedi di Gesù. Gli altri nove probabilmente si sentono a posto, ritenendo la guarigione un atto dovuto per la loro religiosità, o per la loro appartenenza al popolo eletto. Si preoccupano di andare dai sacerdoti per compiere i riti prescritti, e che anche Gesù aveva loro ricordato, ma smarriscono e interrompono sul nascere l’incontro con il loro potenziale salvatore.

Certo tutti e dieci sono stati purificati, ma solo il samaritano capisce l’importanza di custodire la relazione con quel maestro che ha avuto pietà di loro: prima di andare dai sacerdoti preferisce tornare da Gesù , lodando Dio, per prostrarsi ai suoi piedi.

Tutti guariti, ma solo questo samaritano si salva per la sua fede in Gesù, per aver riconosciuto in lui, non un semplice guaritore, ma l’inviato di Dio ( infatti egli va a ringraziare Gesù lodando Dio ). “Alzati e va’ , la tua fede ti ha salvato ”. Ecco la parola che il Signore Gesù vorrebbe pronunciare per tutti noi.  “Il tuo atto di umiltà nel riconoscere la presenza di Dio salvatore nella tua vita ti ha salvato”.
Siamo chiamati a trasformare la nostra religiosità in un rapporto personale con il Signore. Non ci possiamo fermare all’esecuzione di pratiche liturgiche pur importanti, ma dobbiamo vivere la fede nella consapevolezza di una presenza che non ci abbandona mai, vivere le nostre occupazioni e le nostre cose cercando di ritornare col cuore il più frequentemente possibile alla presenza di Gesù Signore.