martedì 25 ottobre 2016

Da dove cominciare per redimere questa economia?




Un interessante contributo di Leonardo Becchetti nell'editoriale di Avvenire del 25 ottobre 2016


Il lavoro sempre più voucherizzato, i call center in crisi perché i precari non lo sono abbastanza, i fattorini di Foodora che portano la pizza a domicilio a salari stracciati e capiscono che l’unica disperata forma di protesta che può far presa è l’appello ai consumatori a non comprare i loro prodotti. Che cosa sta succedendo? Guardatevi intorno e vedrete nei paesaggi delle nostre città e delle nostre periferie il trionfo dell’economia e contemporaneamente il suo fallimento nel regalarci felicità e pienezza di senso di vita. 
Fallimento figlio del suo grave peccato originale. Distese senza fine di ipermercati, centri commerciali e negozi traboccanti di prodotti di ogni genere, colmi di tutte le varietà possibili vendute a prezzi stracciati, al massimo del sottocosto possibile.

Il mondo è diventato esattamente ciò che quel gruppo di filosofi morali che inventò l’economia moderna più di due secoli fa voleva che diventasse: il trionfo del consumatore. L’obiettivo era nobilissimo e tutt’altro che meschino: rendere l’umanità felice. Il risultato assolutamente di successo se valutato in termini di coerenza con le premesse. 

Peccato però che la funzione di felicità utilizzata (l’ipotesi su cosa rendesse l’uomo felice) fosse sbagliata. I fondatori dell’economia partirono infatti da un’ipotesi allora non verificabile empiricamente e rivelatasi poi del tutto fallace: una visione di uomo (l’homo economicus) la cui funzione di utilità/felicità indicava come principale, se non unica, fonte di soddisfazione l’aumento dei beni acquistabili date le proprie possibilità di spesa: in parole povere la felicità vuol dire rendere sempre più pieno il carrello del supermercato (il «paniere dei beni» usando il linguaggio più antico con cui si insegna l’economia all’università). Sarebbe stata la concorrenza di mercato lo strumento decisivo per condurci al paradiso date queste premesse e questa funzione, ovvero quella mano invisibile capace di trasformare l’avidità dei singoli produttori in una corsa al ribasso dei prezzi che avrebbe generato il massimo surplus dei consumatori. Una somma di avidità trasformata automaticamente in bene di tutti dalla mano invisibile del mercato.

È andata esattamente così. Peccato – come si diceva – che qualche tempo dopo gli studi empirici sulla felicità (e forse sarebbe bastato il buon senso comune smarrito) hanno cominciato a smentire clamorosamente le premesse ipotizzate dai fondatori dell’economia. Questi studi ci dicono quasi unanimemente che la felicità degli esseri umani non dipende affatto dalla quantità di beni consumati quanto piuttosto dalla nostra generatività, dalla qualità della nostra vita di relazioni, dalla dignità e creatività del nostro lavoro, dalla bellezza dell’ambiente in cui viviamo dalla nostra salute. 

Il paradosso in cui viviamo è che gli effetti indiretti della prodigiosa macchina messa in moto per produrre il massimo numero e varietà di beni ai minori prezzi possibili, figli di una teoria che ha messo fuori dai radar tutto quello che è fondamentale per vivere (relazioni, bellezza e qualità dell’ambiente, dignità del lavoro, salute), ha avuto purtroppo molto spesso l’effetto di produrre effetti indiretti negativi su tutte queste altre dimensioni ignorate, ma in realtà fondamentali per la nostra felicità. Abbiamo imparato tristemente a nostre spese che dietro il sottocosto (il prezzo basso non-importa-come) c’è molto spesso lo sfruttamento del lavoro, i rischi per la salute, la distruzione della sostenibilità ambientale, la messa in secondo piano della vita di relazioni. Il peccato originale degli economisti ci ha portato a vivere in una società dove siamo quasi onnipotenti, viziati e compulsivi come consumatori, ma sempre più fragili e a rischio come lavoratori, crescentemente poveri di relazioni e alla disperata ricerca di soluzioni per tutelare qualità ambientale e salute.

Come si può intervenire per correggere il bug, l’errore iniziale di programmazione di questa macchina? In estrema sintesi mettendoci gli occhiali giusti per misurare il benessere e prendendo il toro per le corna. Utilizzando cioè il massimo potere che il sistema ci dà, quello di scegliere cosa consumare e risparmiare, "votando col portafoglio" – come non mi stanco di ripetere – per riequilibrare il tutto, ridando valore e dignità al valore delle dimensioni invisibili, ma fondamentali, per il senso del nostro vivere. Dobbiamo pertanto pretendere prima di essere informati nel modo migliore possibile, per scovare poi il valore ambientale, relazionale, di dignità di lavoro e di salute incorporato nei prodotti e premiare con le nostre scelte quelli all’avanguardia in queste dimensioni. È il mercato il dominus e il mondo lo cambiamo solo cambiando il mercato. Accorgendoci che in fondo non è un’entità astratta e lontana perché il mercato siamo noi quando consumiamo e risparmiamo.

Gli ingredienti di un futuro migliore già esistono e stanno crescendo: indicatori di benessere equosostenibile, finanza e banche etiche, commercio solidale, imprese sociali e cooperative vecchie e nuove, benefit corporation, gratuità e dono che escono dalle dimensione squisitamente religiosa e diventano sempre più elementi centrali e fondamentali della vita sociale ed economica. Vanno accompagnati da una battaglia culturale sui media e sui social per sconfiggere rancore e "passioni tristi" ispirate da insicurezza sociale e povertà spirituale per rendere tutti consapevoli del potenziale enorme di cambiamento che è nelle nostre mani. La sfida è già iniziata. E tempo di prenderla sul serio.

Commento al Vangelo della XXXI Domenica del TO, anno C; 30 ottobre 2016




L’importante non è essere alti ma all’altezza


TESTO  (Lc 19,1-10) 

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là. 

Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!». 

Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto». 
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».


COMMENTO

Zaccheo aveva rubato molto, lo confessa lui stesso a Gesù quando questi varca la soglia della sua casa. D’altronde il testo ci dice che era capo dei pubblicani, quindi aveva sotto di sé altri pubblicani dipendenti, altri esattori delle tasse che per conto di Roma riscuotevano imposte ai loro concittadini. Zaccheo  cerca però lo sguardo di Gesù, intuisce che in quella presenza ci potrebbe essere una novità, una rottura di continuità con una vita che sicuramente iniziava a disgustarlo, ad annoiarlo, con tutto il fardello delle disonestà commesse e la consapevolezza di essersi approfittato dei suoi stessi concittadini, vendendoli all’odiato potere romano. 

L’atteggiamento di Zaccheo ci è descritto con tre azioni: “cercava di vedere, corse avanti, salì su un sicomoro”; tuttavia  sembra essere piuttosto Gesù che lo attendeva, che avevo deciso di entrare a casa sua. 
 Zaccheo, insomma, ci mette del suo per essere raggiunto e toccato da quella presenza. La sua bassezza, simbolo in fondo della sua bassezza morale, e la folla  gli impedirebbero di realizzare questo incontro ma egli tenta tutto quello che umanamente gli è possibile, forse anche mettendosi in ridicolo davanti a  persone abituate a vedere invece un uomo sicuro e ben radicato nella sua autorità, e che certamente non aveva bisogno di nessuno.

“Zaccheo, scendi subito”, dice Gesù. Come poteva conoscere il suo nome? Non lo sappiamo ma in fondo è questo il fascino dell’episodio: Gesù conosceva e aspettava il piccolo Zaccheo già da prima e lo invita a scendere per poter entrare nella sua casa e portargli il bene più prezioso: la sua salvezza. Zaccheo, uomo basso per statura e moralità, coglie l’opportunità e si dimostra così all’altezza della situazione.

Come non ritrovarci in questo pubblicano? Noi che cerchiamo in tutti i modi di "salire", di acquisire titoli di merito nella società, nell’ambiente di lavoro, noi che cerchiamo di salire anche nella nostra ricerca religiosa: siamo invece dinanzi ad un Dio fatto uomo, sceso tra noi, che ci chiede di scendere e di accoglierlo in casa: un Dio che ci chiede di scendere dai nostri piedistalli artificiali e di accoglierlo nella nostra esistenza, con le sue ristrettezze di cuore e con le sue piccinerie. Il Signore desidera abitare la nostra vita, quale essa sia, e quale ne sia lo stato morale perché vuole guarirla, risollevarla, redimerla, ridonarle lucentezza e gioia.  

Quanto sono belle e vere a tal proposito le parole di Papa Francesco nell’Evangelii Gaudium n. 3:
 “ «nessuno è escluso dalla gioia portata dal Signore». Chi rischia, il Signore non lo delude, e quando qualcuno fa un piccolo passo verso Gesù, scopre che Lui già aspettava il suo arrivo a braccia aperte. Questo è il momento per dire a Gesù Cristo: «Signore, mi sono lasciato ingannare, in mille maniere sono fuggito dal tuo amore, però sono qui un’altra volta per rinnovare la mia alleanza con te. Ho bisogno di te”. 

lunedì 24 ottobre 2016

I Francescani e i monti di pietà



Quando si coglie l'esigenza pressante del Vangelo a diventare "carne", la creatività tocca tutti gli ambiti dell'umano


Può esistere un sistema in cui il credito non costa? Papa Francesco non ha dubbi: “Il denaro deve servire non governare”. Più difficile capire come agire in un sistema globalizzato in cui domina l’utilitarismo e la speculazione finanziaria sembra prevalere sulla produzione. È vero che c’è un gran discutere dei danni della speculazione finanziaria, ma come si fa a elargire il credito senza interessi? Sono i temi che ZENIT ha affrontato con il professor Oreste Bazzichi, docente di filosofia sociale ed etica economica alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum. Bazzichi è anche autore di molti libri su questi temi, gli ultimi pubblicati sono:  “Dall’economia civile francescana all’economia moderna, Una via all’umano e al civile dell’economia” (Edizioni Armando Editore 2015) e “Economia e scuola francescana” (Edizioni Libreria Universitaria.it 2013). Le prime due interviste al prof. Bazzichi sono state pubblicate da ZENIT  il 7 ed il 16 di ottobre.


Come funzionavano i Banchi di Pegno e perché i francescani ne favorirono nascita e diffusione? Per quanto veniva moltiplicato il valore del pegno per l’elargizione del credito?

In quel momento storico l’Italia stava attraversando il passaggio culturale dal Medioevo al Rinascimento e furono molti i fattori che accrebbero le richieste di denaro e contestualmente il bisogno di credito di sopravvivenza. La piaga dell’usura era dilagante e opprimeva le genti più povere delle campagne e delle città. La felice intuizione dei francescani fu quella di istituire i Monti di Pietà, organismi innovativi in grado di offrire credito per i bisogni di chiunque lo richiedesse, purché avesse da offrire in pegno un qualche bene mobile, anche di scarso valore, oppure che riscuotesse di “buona fama di onestà, di fiducia e di fede cristiana” nella comunità.

L’istituzione si formò con i proventi di donazioni e di elemosine e perciò prese il nome di Monte di Pietà. Il tasso non doveva superare il 5/6%. Dagli “Statuti” apprendiamo che, per esempio, a Perugia non si prestava più di sei fiorini al valore di 40 bolognini ciascuno e per il periodo di sei mesi, mentre nella vicina Assisi se ne prestavano soltanto cinque e nell’arco di nove mesi; a Spoleto, invece si prestava fino a quattro fiorini per un periodo di un anno. Va precisato, comunque, che si trattava sempre di piccoli prestiti, per lo più dietro presentazione di un pegno che valesse almeno un terzo in più della cifra ottenuta. Tutto questo in nome del bene comune, santificando una pratica, quella creditizia, che faceva riferimento alla disponibilità del cristiano a sacrificare per gli altri qualcosa di proprio.

Da subito l’iniziativa francescana si distinse per l’impulso esistenziale e fornì una valida alternativa in termini di lotta all’usura.  Con le loro attività i Monti Di Pietà, ora legati al credito su pegno, ora orientate a garantire una dote alle donne più povere o a contribuire al mantenimento di un ospedale o orfanatrofio, seppero adeguarsi ai cambiamenti socio-economici in tutta Europa; e proprio a questa capacità di adeguamento e di flessibilità va ricondotta la loro lunga durata fino alla istituzione delle Casse di Risparmio nella seconda metà dell’Ottocento.

L’usura è stata condannata sin dai tempi del mondo greco-romano, tuttavia si trattava di condanne piuttosto “teoriche”, e la prima vera reazione si ebbe solo con l’opera francescana, in armonia col precetto del vangelo di Luca “Mutuum date nihil inde sperantes” (6,25) che, da una prima interpretazione, si riteneva vietasse il prestito a interesse, a maggior ragione se usuraio. La teoria della produttività del capitale e del valore economico e del giusto prezzo, elaborata da fra Pietro di Giovanni Olivi e dai suoi confratelli, legittimò eticamente l’erogazione del credito a modico interesse, dando una forte accelerazione al sistema sociale ed allo sviluppo economico, che era statico.

Nel 1515 numerosi contrasti tra giurisprudenza e teologia sull’argomento vennero sanati grazie all’emanazione della Bolla “Inter multiplices” da parte del Concilio Laterano V. La Bolla Di Leone X , pur confermando la condanna della Chiesa contro il flagello dell’usura, in quanto ribadiva l’inapplicabilità per ragioni sociali del prestito a interesse, rappresentò al tempo stesso il primo riconoscimento ufficiale dell’attività creditizia praticata dai Monti, in quanto li legittimava ad applicare una modesta somma a titolo di rimborso delle spese, per queste e per altri tipi di operazioni. La massiccia diffusione di questi istituti avvenne a partire dai grandi centri dell’Italia centrale: Perugia fu il primo nel 1462, poi Orvieto, Gubbio, Pesaro, Foligno, Terni, Assisi, Spoleto, Viterbo, Firenze, Roma, Genova, Mantova, Pavia sino a espandersi in tutto il mondo “cattolico”.

Quali erano i benefici per l’economia e per la società di questo modo di intendere il credito?

Dopo l’istituzione dei Monti di Pietà si riscontrò una ripresa socio-economica delle città, se non addirittura di una uscita dalla povertà e dalla miseria dei ceti più deboli, allora costretti a ricorrere a prestiti usurai. Essi modificarono la pratica creditizia soprattutto nella direzione culturale del modo di concepire il credito: una istituzione creditizia al servizio di coloro che erano in grado soprattutto di offrire un pegno come garanzia. Non va dimenticato che i servizi dei banchi privati praticavano un alto tasso di interesse a causa della rarità del denaro liquido e per i molti rischi connessi a tale attività.

L’attività produttiva ridette dignità e spazio nella società, sottraendo i cittadini a quel degrado psicologico e morale cui l’inerzia e l’assistenzialismo possono condurre. Questo modello relazionale e sussidiario si rifletteva nell’architettura stessa della città: la piazza (intesa come agorà), la cattedrale (sede vescovile e cattedra della dottrina), il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni delle arti e dei mestieri (organizzazione del lavoro manifatturiero), il mercato (luogo delle contrattazioni e degli scambi), i palazzi della borghesia, i conventi degli Ordini religiosi e, infine, le chiese, dove avevano sede i servizi sociali e di solidarietà promossi e praticati dalle Confraternite. Attraverso questi luoghi concreti e visibili si coltivavano le “virtù civiche”, che definivano la società propriamente civile, le cui principali caratteristiche erano: la fiducia reciproca, la sussidiarietà, la solidarietà, la fraternità, il rispetto delle idee altrui, il credo religioso e la pratica delle virtù cristiane, la competizione di tipo cooperativo. Se questa fu la via per sostenere l’attività economica del XIV e XV secolo, non è fuori luogo riproporla oggi. Leggi di mercato e principi solidaristici possono andare insieme, contro tutte le obiezioni, a condizione che il peso dei problemi e il desiderio di risolverli si trasformino in pungolo a cercare altre vie nel quadro della giustizia.

mercoledì 19 ottobre 2016

Commento al Vangelo della XXX Domenica del TO; 23 ottobre 2016




… Perché il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva


TESTO  ( Lc 18,9-14) 

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

COMMENTO

Il pubblicano della parabola avrebbe voluto alzare gli occhi al cielo e rivolgersi a quel Dio che aveva probabilmente iniziato a conoscere sul serio e che la sua gente in qualche modo gli aveva descritto; lui però non osa, resta a testa bassa, e si rivolge a Dio con un atto di prostrazione come per dire che non sarebbe stato neppur degno di stargli dinanzi. La sua parola “O Dio abbi pietà di me peccatore” è anche la prima parola che pronunciamo tutti noi quando entriamo nel tempio della celebrazione liturgica. Nella Santa Messa noi ci introduciamo al cospetto di Dio e allora il primo atteggiamento non può che essere quello di chi si sente mancante, bisognoso di comprensione e di perdono; per questo ripetiamo “Signore pietà di noi!” Anche se forse non abbiamo grossi pesi sulla coscienza, il chiedere pietà alla misericordia divina ci fa proprio entrare in piena sintonia col cuore del Signore Gesù che ha invocato pietà su tutti noi dall’alto della croce. 

Anche Gesù, morto fuori dalle mura di Gerusalemme, ha accettato di essere lasciato a distanza dai luoghi santi della religione ufficiale, morendo come un malfattore in croce. Il pubblicano della parabola potrebbe essere l’uomo che dopo aver mercanteggiato su tutto, e fatto compromessi a qualsiasi costo, alla fine riconosce la verità di un amore gratuito, di una compassione e di una misericordia che non si compra, che può essere accolta e goduta solo da un cuore umilmente consapevole dell’infinitezza del dono.
Il fariseo prega tra sé e sé. Ringrazia Dio, ma parla e prega tra sé e sé, come se quel Dio a cui si rivolge non fosse il modello di cui lui è immagine e somiglianza ma piuttosto un Dio ricalcato su criteri e modelli di onestà e giustizia personali. 

La parabola immediatamente prima il Signore aveva parlato di un giudice iniquo. Questo fariseo pur non essendolo manifestamente, lo è perché non si appoggia sul suo rapporto con Dio, ma usa Dio per paragonarsi, per restare al di sopra di un altro. Il mettersi alla presenza di Dio non lo mette in comunione con l’uomo, ma anzi lo allontana. Egli prega in piedi e ringrazia Dio di non essere come quel peccatore ma, dice Gesù, non torna a casa giustificato, e forse ancor più lontano di prima dalla giustizia del Regno dei Cieli. Allontanato da parte di chi? In fondo dalla sua stessa incapacità di uscire da sé stesso, dalla sua stessa incapacità di stabilire una relazione vera, filiale, sincera, con il Signore di ogni misericordia. 

Nell’atteggiamento del pubblicano fermatosi a distanza, ma che viene accolto dalla giustizia e dalla benevolenza divina, sentiamo la risonanza delle parole del Magnificat di Maria di Nazareth “L’anima mia magnifica il Signore … perché ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore … e ha innalzato gli umili”. 

mercoledì 12 ottobre 2016

Commento al Vangelo della XXIX Domenica del TO anno C; 16 ottobre 2016



LO STALKING DELLA VEDOVA

TESTO  ( Lc 18,1-8 )

In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. 

Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». 
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».


COMMENTO

Nella parabola la vedova sembra vittima di un’ingiustizia umana, cioè di un mancato rispetto di un accordo umano, di una legge che regola i suoi rapporti con gli altri. Ma da questo episodio in cui il giudice, di per sé ingiusto, accetta di ristabilire un’umana equità tra la vedova e il suo avversario, Gesù giunge alla conclusione: a maggior ragione quanto più il Padre nostro non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di Lui? Ma cosa gridano (o cosa dovrebbero gridare) giorno e notte gli eletti al Signore? Cosa è la giustizia nei rapporti tra Dio e l’uomo?

 “Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia perché saranno saziati”. È la quarta beatitudine proclamata da Gesù. Fame e sete: due esigenze primarie, vitali. Ma anche la giustizia, soprattutto la giustizia di Dio è un bene ancora più primario perché eterno, tanto che Gesù dirà “cercate anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose ( le cose da mangiare , da bere e da vestire ) vi saranno date in aggiunta” ( Mt 6,33 ) . Pensate: nelle parole di Gesù la ricerca la giustizia del Regno di Dio viene ancor prima del cibo, eppure così essenziale! Cosa è dunque la giustizia?

 La giustizia che Dio ci chiede è di fidarci di Lui, delle sue promesse, di restare sempre in una relazione viva con Lui. Abramo ebbe fede, e Dio glielo accreditò come giustizia ( cfr Gen 15,6 ). 
Dio è sommamente giusto perché adempie le sue promesse, come ha dimostrato concedendo ad Abramo una innumerevole discendenza, e allora la nostra giustizia sarà quella di fidarci di Lui, delle sue promesse irrevocabili. Se la vedova è stata esaudita per la sua insistenza da un uomo malvagio, quanto più il Signore disseterà la nostra sete di felicità, di una vita autentica, sensata, interessante da vivere? La fede è la ricerca di un incontro personale con il Signore che è morto per il desiderio di donarci il suo perdono e la vita eterna. La nostra vita senza fede è una perenne vedovanza, una perenne ricerca di un affetto che solo la relazione con Dio Padre ci può dare e che non potrà mai essere sostituita da mille rapporti umani o da mille cose. 

Accogliamo dunque l’invito di Gesù a tenerlo nel cuore sempre, come uno sposo custodisce costantemente nel cuore il pensiero della sua sposa. La nostra preghiera sarà sempre esaudita, perché il suo primo effetto sarà proprio quello di darci lo sposo del nostro cuore: la percezione della presenza del Signore accanto a noi. 

mercoledì 5 ottobre 2016

Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO anno C; 9 ottobre 2016




Dieci miracolati, un solo salvato

TESTO ( Lc 17,11-19 ) 

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea. 
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».


COMMENTO

Quando Giovanni Battista invia i suoi discepoli da Gesù per chiedergli: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro” , Gesù rispose, dopo aver guarito molti: “andate e riferite a Giovanni ciò che avete visto e udito: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati … “ Nella tradizione ebraica era quindi presente la convinzione che all’arrivo dei tempi del Messia, di Colui appunto che doveva venire, la lebbra sarebbe scomparsa. Anche perché si vedeva in essa un certo legame con la colpa morale, e se il Messia doveva liberare e restaurare Israele , doveva necessariamente anche liberarlo da questa mortale malattia.
Gesù non fa distinzioni nel suo atto di pietà: tra i dieci lebbrosi c’era anche un ebreo scismatico, cioè un samaritano; anzi proprio lui decide di tornare indietro glorificando Dio e prostrandosi ai piedi di Gesù per ringraziarlo.

Non possiamo dedurre necessariamente che gli altri nove fossero giudei osservanti, ma l’episodio è un amaro ammonimento per tutti noi, per le nostre false pretese di giustizia. Il samaritano che sapeva di non essere in comunione con i giudei torna a prostrarsi ai piedi di Gesù. Gli altri nove probabilmente si sentono a posto, ritenendo la guarigione un atto dovuto per la loro religiosità, o per la loro appartenenza al popolo eletto. Si preoccupano di andare dai sacerdoti per compiere i riti prescritti, e che anche Gesù aveva loro ricordato, ma smarriscono e interrompono sul nascere l’incontro con il loro potenziale salvatore.

Certo tutti e dieci sono stati purificati, ma solo il samaritano capisce l’importanza di custodire la relazione con quel maestro che ha avuto pietà di loro: prima di andare dai sacerdoti preferisce tornare da Gesù , lodando Dio, per prostrarsi ai suoi piedi.

Tutti guariti, ma solo questo samaritano si salva per la sua fede in Gesù, per aver riconosciuto in lui, non un semplice guaritore, ma l’inviato di Dio ( infatti egli va a ringraziare Gesù lodando Dio ). “Alzati e va’ , la tua fede ti ha salvato ”. Ecco la parola che il Signore Gesù vorrebbe pronunciare per tutti noi.  “Il tuo atto di umiltà nel riconoscere la presenza di Dio salvatore nella tua vita ti ha salvato”.
Siamo chiamati a trasformare la nostra religiosità in un rapporto personale con il Signore. Non ci possiamo fermare all’esecuzione di pratiche liturgiche pur importanti, ma dobbiamo vivere la fede nella consapevolezza di una presenza che non ci abbandona mai, vivere le nostre occupazioni e le nostre cose cercando di ritornare col cuore il più frequentemente possibile alla presenza di Gesù Signore.