giovedì 27 ottobre 2022

Il dono, anzitutto

  

Commento al Vangelo della XXXI domenica del TO, anno C – 30 ottobre 2022

 

Dal Vangelo di Luca (Lc 19,1-10)

In quel tempo, Gesù entrò nella città di Gèrico e la stava attraversando, quand’ecco un uomo, di nome Zacchèo, capo dei pubblicani e ricco, cercava di vedere chi era Gesù, ma non gli riusciva a causa della folla, perché era piccolo di statura. Allora corse avanti e, per riuscire a vederlo, salì su un sicomòro, perché doveva passare di là.
Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: «Zacchèo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua». Scese in fretta e lo accolse pieno di gioia. Vedendo ciò, tutti mormoravano: «È entrato in casa di un peccatore!».
Ma Zacchèo, alzatosi, disse al Signore: «Ecco, Signore, io do la metà di ciò che possiedo ai poveri e, se ho rubato a qualcuno, restituisco quattro volte tanto».
Gesù gli rispose: «Oggi per questa casa è venuta la salvezza, perché anch’egli è figlio di Abramo. Il Figlio dell’uomo, infatti, è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto».

 

Commento

 Durante i colloqui individuali prima della cresima, nella mia vita passata da parroco, chiedevo sempre ad ogni ragazzo quale fosse il sogno della sua vita. Un ragazzo una volta stentava a trovarne uno, ma sotto mia insistenza finalmente elaborò il suo sogno: “arrivare a maturare la pensione”. La cosa mi demoralizzò abbastanza, ma poi ho sempre ripensato a quel ragazzo come alla vittima della spiritualità dei “diritti e dei doveri”, secondo la quale si deve andare a scuola, poi si deve trovare un lavoro, per poi avere diritto a uno stipendio; e analogamente, se c’è stata una qualche educazione cristiana, si “deve” anche andare a Messa la Domenica e si deve pregare tutti i giorni, per poi avere diritto al Paradiso. Insomma, penso che per chi non ha mai sentito dire che la vita è anzitutto un dono, che l’amore di un padre e di una madre è anzitutto un dono, e che anche la vita eterna e l’amore di Dio sono doni gratuiti, sia molto facile anelare già a 13 anni l’età del riposo, salvo poi, una volta giunti alla meta, anelare all’ “eterno riposo”.
Auguro, invece, a tutti voi, ascoltatori, l’entusiasmo e lo slancio di Zaccheo al quale il Signore, nel racconto evangelico appena ascoltato, non chiede proprio nulla, se non la possibilità di fermarsi nella sua casa.
Da un pubblicano come lui, abituato a spillare tasse dai suoi compaesani per conto dei romani, non si sarebbe potuto ottenere più di qualche spicciolo partendo dall’etica dei diritti e dei doveri. Invece, Zaccheo, si lascia toccare il cuore da Gesù perché, Gesù, si presenta a lui proprio come un dono, e non come uno che viene a chiedere il conto: “Scendi subito perché oggi devo fermarmi a casa tua”. Qui è il Signore, anzitutto, a sentirsi in dovere. Perché l’amore lo spinge a essere presenza vicina e amica, e in questo momento a esserlo per Zaccheo, piccolo non solo di statura, ma fino a questo incontro anche nel cuore, abituato a ragionare sempre e solo di denaro. Auguro a ciascuno di voi la pazzia e la generosità di Zaccheo, possibili solo per quelli che sapranno dare casa nella propria vita alla pazzia e all’amore disinteressato di Dio per noi, rivelati in Gesù. Un’accoglienza simile ci salverà la vita.

mercoledì 19 ottobre 2022

Commento al Vangelo della XXX domenica del Tempo Ordinario - anno C - 23 ottobre 2022

 
La più grande giustizia

 
Dal Vangelo secondo Luca (18,9-14)

In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

 

Commento

 Domenica scorsa abbiamo ascoltato la domanda di Gesù al termine della parabola della vedova importuna: “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui, e li farà a lungo aspettare?”
Nella continuazione del testo di Luca troviamo oggi quest’altra parabola in cui Gesù specifica qual è la più grande opera della sua giustizia, e cioè la misericordia. Non possiamo entrare con concetti giuridici in questo ambito ma possiamo dire senz’altro che il perdono di Dio ci spetta di diritto, e addirittura lo meritiamo. Forse per meriti nostri? Forse per aver fatto qualcosa di speciale? Assolutamente no. Solo per il fatto di aver avuto nella famiglia umana un figlio di uomo che era, ed è tutt’ora, anche figlio di Dio che, notte e giorno continua a intercedere per noi (cf. Eb 7,25): Cristo Gesù.
Dietro l’immagine di questo pubblicano c’è esattamente il mistero dell’umanità di Gesù. Egli è l’unico uomo giusto che è apparso nella storia del mondo ma ha voluto assumere il grido di dolore e la supplica della nostra umanità ferita dal male e dal peccato.
Gesù è il Dio fatto uomo che è venuto a gridare misericordia per tutti noi, e che continuamente grida dal profondo del cuore di ciascuno di noi, se soltanto avessimo l’umiltà di lasciarlo parlare. A tal proposito un giorno un giovane mi disse, dopo avermi raccontato la sua vita: “Non credo di meritare il perdono di Dio, ma so che Gesù lo ha meritato per me!”.

lunedì 10 ottobre 2022

Questione di fede

 

 Commento al Vangelo della XXIX domenica del Tempo Ordinario, anno C – 16 ottobre 2022

Dal vangelo di Luca (18,1-8)

 In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai:
«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”».
E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». 

 

Commento

 
Quest’ultima domanda di Gesù ci lascia abbastanza inqueti, come se ci fosse effettivamente il rischio che alla sua seconda e definitiva venuta, possa non esserci neppure un credente sulla terra, neanche quel proverbiale granello di senape di cui si diceva due domeniche fa.
Oltre ciò, direi che non è il caso di farci prendere dalla preoccupazione che anche i discepoli una volta mostrarono al Signore, se siano pochi o tanti quelli che si salvano.
Sempre il vangelo è una parola rivolta a me che ascolto, è una sollecitazione alla mia fede personale. Per cui sarebbe opportuno sentire risuonare personalmente questa domanda: Se il Signore venisse ora a ricapitolare la storia, e quindi anche la mia personale, troverà la fede nella terra del mio cuore, nella terra della mia esistenza, delle mie relazioni?
Sarebbe a dire: qui e ora la fede in Cristo Signore è la ruota di scorta di quando subisco degli imprevisti, oppure è una relazione viva, e con una presenza vivente?
Se un giudice iniquo può far giustizia per motivi non ispirati dall’amore, come potrà non far giustizia un Padre che è l’Amore in sé stesso. In effetti il ragionamento di Gesù è talmente logico, da rendere evidente che si tratta solo di una questione di fede, che si accresce, però, esercitandola - nelle piccole come nelle grandi occasioni della vita - e pregando sempre, senza stancarsi mai, come la vedova importuna e petulante.

Commento al vangelo della XXVIII domenica del Tempo Ordinario, anno C - 9 ottobre 2022

 


La gratitudine che nasce dallo stupore
 

Dal Vangelo di Luca (17,11-19)

Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!». 

 

Commento

 Quanti miracolati anonimi! Quanti di noi hanno ricevuto doni specialissimi dalla vita, e in ultima battuta dal Padre nostro celeste, senza averne preso sufficientemente coscienza!
Nell’episodio ascoltato la proporzione di chi torna a lodare Dio per l’avvenuta purificazione è preoccupante: uno su dieci. Eppure emerge con forza, in questo passaggio, l’assoluta gratuità dei doni che il Signore elargisce agli uomini. Egli ascolta il grido, l’invocazione di pietà dei dieci lebbrosi, afflitti nel loro dolore e nella loro emarginazione, e subito esaudisce inviandoli ai sacerdoti, perché anche questi siano testimoni autorevoli dell’accaduto.
L’avvenuta purificazione non è sufficiente, però, al conseguimento della salvezza che Gesù è venuto a portare. C’è ben di più di una guarigione, di una purificazione da una malattia, seppur mortale. Gesù è venuto a portare la guarigione eterna, il regno di Dio,  che comincia dalla sua presenza umano-divina in mezzo agli uomini, e che permane in eterno come amore filiale nel quale reinserirci.
Deve scattare qualcosa, tuttavia, nell’anima per poter volgere lo sguardo su chi ci ha beneficiato, e a quel punto non conta più il quanto e il come si ha ricevuto, ma il “chi”, e lo stupore di quest’incontro può far dimenticare anche le fatiche, le prove, le avversità, e far generare solamente un perenne “grazie”.
Non ha forse composto il Cantico delle creature san Francesco d’Assisi proprio alla fine della sua vita, quando le molte malattie lo tormentavano, ed era oltretutto ormai quasi cieco? La gratitudine, evidentemente, è cosa del cuore.