giovedì 28 settembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 1 ottobre 2017, XXVI del TO, anno A

             

 Un “Si” che viene dal cuore 


TESTO (Mt 21,28-32) 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». 
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».


COMMENTO

Il libro dei Proverbi ammonisce “Chi ricerca la giustizia e l’amore troverà vita e gloria”. (Pr 21,21) Gesù era capace di leggere nel cuore delle persone e forse nella coscienza di prostitute e ladri legalizzati (che erano i pubblicani) aveva notato un profondo desiderio di Bontà, un sincero desiderio di Dio, confermato dal fatto che alcuni di questi avevano creduto alla predicazione di Giovanni Battista. Nelle parole di Giovanni questi pubblici peccatori avevano trovato certamente una risposta alla loro insoddisfazione, alla loro insofferenza per una vita che, lontana dal Bene, non può dare gioia al cuore. In quello stesso desiderio profondo della coscienza umana per le cose vere, buone e belle, c’è già l’appello, la chiamata di Dio, di Cristo Salvatore.

Proprio ciò che manca ai cosiddetti giusti interlocutori di Gesù, a quelli che si fermano ad un’osservanza formale, ad un “Si” detto solo con la superficie del cuore, pensando che sia sufficiente frequentare il tempio di Gerusalemme, ma che trascurano di accogliere nel tempio del proprio cuore e della propria vita, la luce dell’amore di Dio. I capi dei sacerdoti e gli anziani a cui Gesù sta parlando non sono certamente persone cattive, anzi proprio perché non biasimabili per evidenti immoralità, sono tentati nell’orgoglio di una “giustizia fai da te” che non diventa giustizia del cuore, tenerezza di relazioni fraterne e ascolto profondo della Parola di Dio.

Troppo spesso anche nel cuore dei cristiani, specie se già inseriti in qualche realtà ecclesiale, si fa strada la supponenza di essere già posto, di essere nel numero di chi fa già qualcosa di buono per il Regno di Dio. Nel cuore del credente a volte si spengono le domande.
In un testo liturgico invece siamo invitati a pregare proprio così: “A quanti cercano la verità, concedi la gioia di trovarla, - e il desiderio di cercarla ancora, dopo averla trovata”  (dalle intercessioni Vespri lunedì III settimana Salterio)

Bella la testimonianza di P. Tiboni, missionario comboniano per tanti anni in Africa: “I miei amici africani dicono: «Una risposta senza domanda è un non senso». Se manca la domanda, il desiderio di infinito, la scoperta della propria umanità, allora anche Gesù Cristo resta come una risposta a una domanda che non esiste. Noi dicevamo: «La risposta è Cristo», ma per capirla ci deve essere la domanda”. Non sentiamoci mai a posto perché chi accoglie la parola del Signore è sempre in cammino.

giovedì 21 settembre 2017

Commento al Vangelo della XXV Domenica del Tempo Ordinario, anno A, 24 settembre 2017





MISERICORDIATI A TEMPO INDETERMINATO


TESTO (Mt 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. 

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».


COMMENTO

All’avanzare del giorno calano le pretese lavorative di questi lavoratori a tempo determinato, determinatissimo, appena qualche ora. Quelli dell’alba stipulano un accordo verbale: un denaro al giorno. Poi il padrone della vigna assume alle nove altri operai. La giornata è già iniziata, la possibilità di trovare lavoro è più scarsa, e allora per convincerli ad andare nella vigna è sufficiente promettere “quello che è giusto”.

Ma la giornata avanza ancora e arriviamo addirittura al pomeriggio, quando mai nessuno assumerebbe operai per lavorare appena un’ora. Le attese degli operai sono quasi nulle. Il padrone dice “andate” e questi vanno, senza nessuna altra promessa o impegno da parte del datore di lavoro. Egli in questo caso non dice neppure “vi darò quello che è giusto”. Nessuno li ha presi ed essendo disoccupati, forse vale la pena lavorare anche per poco più di nulla, magari rischiare anche di lavorare gratis, sperando nella pura bontà del padrone.

Le meraviglie non finiscono qui. Anzi iniziano proprio ora, al momento di fare i conti.

La parabola è provocatoria e costruita in modo tale da far saltare i nervi agli alfieri dei diritti sindacali. Perché addirittura i primi ad essere pagati sono gli ultimi ad essere stati assunti e ricevono lo stesso denaro promesso ai braccianti delle sei di mattina. Logica vorrebbe, e così pensavano di fatto questi, che la paga per la giornata intera fosse un po’ più di quella pattuita. In questo elemento di contraddizione si gioca il messaggio di Gesù. 
Non siamo forse tutti noi operai dell’ultima ora? Chi di noi può vantare diritti di fronte alla smisuratezza della misericordia di Dio? Detto altrimenti: non navighiamo tutti sulla stessa barca di quella umanità che in un modo o in un altro non riesce a corrispondere alla benevolenza di Dio? … e che quindi ha sempre bisogno di un intervento supplementare di bontà, di paga extra, rispetto alla scarsezza dei meriti personali?

Qui il punto: sentirci in diritto di fronte a Dio ci rende ultimi, perché incapaci di cogliere l’essenza della sua salvezza: pura Grazia. Dovremmo essere sempre come gli operai delle cinque del pomeriggio, cioè metterci al lavoro abbandonandoci alla pura benevolenza del nostro Padre celeste, perché l’unico operaio delle sei di mattina è Cristo stesso, l’unico ad aver lavorato da sempre per il Regno di Dio. 

sabato 16 settembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 17 settembre 2017, XXIV del TO anno A




    La forza disarmante del perdono


TESTO (Mt 18,21-35)

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 

Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».


COMMENTO

All’ingresso del Sermig di Torino ho notato una scritta su pietra a caratteri cubitali che diceva ( e continua a dire ) a chi varca quella soglia: “l’Amore è disarmante”. Mi sembra una frase ad effetto, sintetica, ricca e carica di significato; ma c’è anche qualcosa di più, cioè una grande verità: che la forza dell’amore vince su tutto, anche sulle logiche di violenza, di morte e di sopraffazione. 

L’amore, che nella situazione contingente e concreta di un’offesa assume il volto del perdono, è l’unico atteggiamento vincente. Vorrei dire addirittura: è l’unico atteggiamento conveniente anche dal punto di vista pratico, prima di ogni riflessione di tipo evangelico. L’odio genera odio, l’offesa suscita e accende la rivalsa, in una spirale inarrestabile in cui l’unico antidoto può essere solo un atteggiamento esattamente opposto, che non tiene conto del male subito, pur continuando a reclamare e a domandare giustizia. 

Ma proprio a questo proposito il perdono viene spesso frainteso con l’arrendevolezza, con la rinuncia a far valere qualsivoglia principio di giustizia, con la paura. Il perdono è invece la suprema forma di Carità, l’atto di amore più grande, che non rinuncia alla giustizia ma anzi la supera. Chi chiede giustizia reclama ciò che a lui spetta, esige riparazione e di essere reintegrato nella condizione prima dell’offesa (per quanto possibile); chi perdona reclama, oltre la giustizia, un bene ancora più grande: il bene dell’altro, il bene che è la persona stessa, pur portatore di offese.

La parabola di Gesù mette in luce il circuito vitale del perdono. Il racconto riportato ha un blocco logico. Chi condona un debito non può normalmente ritornare sui suoi passi. Chi strappa una cambiale da riscuotere non può più vantare il suo credito. Ma proprio su questo punto strano, invece, si gioca il messaggio di Gesù: se non perdoniamo interrompiamo la comunicazione con la fonte della misericordia che è il cuore di Dio Padre. Non perdonare a chi ci fa un torto sarebbe come rescindere il legame con Colui che, solo, perdonandoci tutto ci dà la forza di perdonare.

domenica 3 settembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 10 settembre 2017, XXIII del TO , anno A





        POTENZA DELLA COMUNIONE


TESTO ( Mt 18,15-20 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 
In verità io vi dico: 
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».


COMMENTO

Nel capitolo 16 del Vangelo di Matteo Pietro è stato definito da Gesù la pietra su cui egli avrebbe costruito la sua Chiesa, colui che ha il potere di legare e sciogliere, una sorta di plenipotenziario dello stesso Gesù. 
Il brano di oggi aggiunge un aspetto importantissimo a quanto già detto dal Signore. L’autorità che ricade su Pietro deriva dal suo essere a servizio di una comunità. Pietro non è un’autorità solitaria, ma il primo servitore di una comunione a cui Cristo lega il suo messaggio, la sua missione e la sua stessa persona. Dopo aver detto “tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”, Gesù aggiunge anche “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.

Più che una delega in bianco agli apostoli, quindi, sembra la decisione di ritirarsi dal palco scenico, dal ruolo di attore protagonista, e di passare alla cabina di regia, per ispirare dall’Alto, o meglio da dentro le coscienze, la vicenda e le sorti della sua comunità. Cristo sarà attualmente presente col suo Spirito dove due o più saranno capaci di creare comunione, nel mettersi d’accordo per chiedere qualcosa. 
Da qui nascerà una vera comunità, che a buona ragione, potrà essere chiamata “Corpo”, il corpo di Cristo appunto, la Chiesa. Mai un’autorità potrà essere esercitata legittimamente nella chiesa di Cristo in modo solitario.

 Anche se questo fosse fatto, abusando di un ruolo ricevuto dalla gerarchia ecclesiale, sarebbe comunque una usurpazione di ciò che, secondo il senso della volontà del Signore, deve sempre passare attraverso il discernimento di una comunità di fratelli che custodiscono la coscienza della presenza del Signore in mezzo a loro, e nella quale ovviamente ci sarà qualcuno che avrà la responsabilità della decisione ultima.