venerdì 29 dicembre 2017

Domenica 31 dicembre 2017, Santa Famiglia di Nazaret




Sulla scia di Betlemme 



TESTO Forma breve (Lc 2,22.39-40):

 Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore. 
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.


COMMENTO

Domenica dopo Natale, Domenica della Santa Famiglia di Nazareth. Ambiente quotidiano della crescita e maturazione di Gesù Signore è una comunione umana di un uomo, Giuseppe, e la sua sposa, Maria. “Il bambino cresceva e si fortificava”. In queste poche parole sembra esserci tutto il mistero della vera umanità di quel Dio che accetta di farsi piccolo, di farsi bambino e di percorrere l’itinerario dello sviluppo umano, psicologico e spirituale di ogni persona. Resta difficile comprendere pienamente come la natura divina di Cristo si sia adattata al processo evolutivo di un uomo, e tuttavia in quelle poche parole ci sono trenta anni di vita familiare ordinaria, scandita dai tempi del lavoro e del riposo, delle gioie e delle fatiche, del dialogo e della preghiera. Quella famiglia di Nazareth, nelle sue modalità pratiche, forse è meno lontana da come noi ce la immaginiamo, ma così tanto diversa rispetto alle ristrettezze dei nostri cuori che spesso, nei legami più intimi, non sanno dare calore e tenerezza.
Uno scout della mia parrocchia, durante una testimonianza, ha detto che per lui la famiglia “è come una canottiera di lana: a volte irrita e provoca prurito, e tuttavia tiene caldo!” Tutto quello che chiede impegno e rispetto degli altri sembra starci stretto e limitare l’espressione della nostra umanità, ma proprio la fedeltà quotidiana a un patto di affetto reciprocamente scambiato nella diversità dei ruoli, provoca apertura all’altro, l’uscita dall’istintivo egoismo infantile. Gesù, ci viene detto, era pieno di sapienza e la grazia di Dio era su di lui.

Anche Gesù ha respirato la sapienza dell’umiltà, dell’obbedienza e del rispetto dei genitori; anche Gesù, pur figlio di Dio, ha accolto la grazia di Dio che gli era naturale ma che doveva trovare in lui-uomo, come di fatto avvenne, la docilità e la mitezza del cuore. 

Che lo stupore per la natività di Betlemme ci conduca ad ammirare lo scenario domestico di Nazaret, e che le virtù domestiche di quella santa famiglia ridestino in noi nuovi slanci di gratuità nelle nostre relazioni più intime e quotidiane.  

giovedì 21 dicembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 24 dicembre 2017, IV di Avvento, anno B




"Quanto supera la natura, viene dall'Autore della natura" (Sant'Ambrogio)


TESTO (Lc 1,26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio». 
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.


COMMENTO

La frase è di Sant’Ambrogio, Vescovo di Milano dei primi secoli della cristianità: “Quanto supera la natura, viene dall’Autore della natura”. L’evento dell’incarnazione esige la semplicità del cuore, di un cuore come quello della Vergine Maria che ha creduto possibile ciò che per lei era inarrivabile, impensabile, al di sopra della sua e di ogni capacità umana di generare. Sono le parole dell’angelo “nulla è impossibile a Dio” ad aprire nel suo cuore la strada dell’accoglienza del Mistero, di un evento divino che cerca strada nella storia umana: nella storia umana di Maria, in quella di chi vi sta parlando e anche nella storia di voi che state leggendo, forse distrattamente. Si, il Signore sceglie di passare e dimorare nelle nostre frequenze umane, così frenetiche, così disturbate da mille interferenze, così provvisorie perché sempre inclini allo “zapping” delle relazioni, degli affetti, delle mode. 

E allora tutta passa, tutto si ascolta, tutto si rimette continuamente in discussione e in forse, perché sembra che più nulla possa restare per sempre. Per sempre…una parola e un concetto che sono diventati come una canottiera di lana grezza, che dà un certo prurito e a volte provoca allergia. Eppure di quel calore tutti abbiamo bisogno, e tutti lo vorremmo perché tutti vorremmo che qualcuno ci abbracciasse e ci dicesse nel modo più solenne e pubblico possibile. “ti voglio bene e non ti lascerò più”.

Non viene dalla natura di Maria quel seme divino di vita nuova sbocciato nel suo grembo, quel bambino figlio del suo grembo a cui per sempre sarà inseparabilmente legato il Verbo di Dio. Non viene dalla natura neppure il suo “Eccomi” perché anche il suo “Si” è frutto di un aiuto dall’Alto. 

Ciò che appartiene a Maria è il mettersi a disposizione per ciò che è, con tutto ciò che è, l’esserci con tutta la sua verginità. Verginità, un’altra parola proibita e fuori moda, sempre erroneamente associata alla rinuncia, alla negazione. Essa dice invece la totalità di Maria, il suo essere totalmente a disposizione dei piani del Signore, e quindi la rinuncia alle auto-salvezze umane, agli aggiustamenti fittizzi di amori a basso prezzo, ma a bassissimo potenziale calorico.


giovedì 14 dicembre 2017

Commento al Vangelo della Domenica III di Avvento, anno B; 17 dicembre 2017



Battista battistrada


TESTO  (Gv 1,6-8.19-28)

Venne un uomo mandato da Dio:
il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per dare testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce.
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». 
Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». 
Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.


COMMENTO

Nelle biografie di San Francesco si narra che un giorno questo pregasse dicendo così: “Mio Dio, chi sei tu, e chi sono io?” Anzitutto la comprensione del volto di Dio e poi la comprensione del proprio sé, della propria identità.

Giovanni Battista, che viene presentato nel prologo scritto dall’evangelista suo omonimo come il testimone della luce, coglie i contorni essenziali dell’identità di Gesù. 

 Infatti Gesù si affermerà come solo Signore della storia dell’umanità sua sposa: una storia macchiata dal male, sprofondata nelle tenebre del peccato, e smarrita per strade contorte e divergenti rispetto al destino di gloria promessa. 

Giovanni non fa una professione di fede chiara e precisa come quella di Pietro, “Tu sei il Cristo”; ma intuisce del Messia quanto gli basta per comprendere esattamente la natura della sua missione: nelle tenebre del peccato dovrà dar testimonianza alla luce, nell’acqua del fiume Giordano dovrà invitare a purificarsi dalla sporcizia del peccato, nelle vie contorte e inconcludenti dell’uomo dovrà preparare la via del Signore.

In questi ultimi giorni di Avvento seguiamo i passi di Giovanni Battista. La sua semplicità di vita trascorsa nel deserto, la sua scelta di silenzio e di distanza rispetto ai centri vitali della politica e dell’economia ci accompagnano delicatamente all’austerità, al silenzio e alla povertà della capanna di Betlemme. Buon cammino a tutti 

giovedì 7 dicembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 10 dicembre 2017, II di Avvento



      La segnaletica della Salvezza


TESTO (Mc 1,1-8)

“Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. 
Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».


COMMENTO

San Marco è il più sintetico di tutti e quattro gli evangelisti e siccome non spreca parole, cerca di dire tutto già nella prima riga del suo racconto: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.” 

In questo modo ci ha già detto che Gesù è “Vangelo” ovvero “buona notizia”. Forse ci siamo troppo abituati a questa parola che non la colleghiamo più alla sua storicità: Gesù di Nazareth è una “bella notizia”, perché in Lui e grazie a Lui è stata annunciata a tutti i popoli di tutta la terra il perdono dei peccati e la vita eterna. Vi sembra poca cosa!?

Secondo: Gesù di Nazareth è il Cristo, traduzione in greco della parola ebraica “Messia”, che significa “il prescelto, l’unto, l’atteso”. Il popolo di Israele attendeva da secoli un liberatore, un Messia che lo stabilisse definitivamente nella Terra promessa senza il giogo di nessun dominio straniero, come invece avvenne nella gran parte della sua storia. Gesù si proclama “via, verità e vita” e afferma che “la verità vi renderà liberi” (Gv 8,32), ma liberi per la vita eterna.

Terzo: non solo Gesù è il Messia ma addirittura è il Figlio di Dio. Gesù dirà: “Io è il Padre siamo una cosa sola”, e anche. “Chi vede me, vede il Padre”. Da qui la nostra fiducia nella sua divina potenza perché Egli è, come diciamo nel Credo: “Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero”.
Dopo una presentazione così potente non resta che fermarsi in contemplazione di questo avvenimento, di crederlo vivo nella storia personale e di permettere che avvenga di nuovo ogni giorno nella propria vita, lasciandoci battezzare (cioè immergere) nello Spirito Santo, nella stessa esperienza spirituale di Cristo Gesù.

Per far questo occorre preparare la via del Signore; non le nostre, ma la via del Signore. Questo significa che il Signore ci incontra e ci fa vivere itinerari diversi da quelli che vorremmo noi, perché direbbe ancora Isaia “Le mie vie non sono le vostre vie, e i miei pensieri non sono i vostri pensieri”.

Tutto può avvenire nella piccolezza della nostra storia umana, perché la storia dell’uomo, di ogni uomo, è stata toccata e visitata dalla presenza di Dio. La nascita di Gesù, Cristo, figlio di Dio, potrà essere un avvenimento realmente gioioso solo per quelli che credono alle imprevedibili sorprese di Dio.

giovedì 30 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 3 dicembre 2017, I di Avvento anno B




Chi gioca in porta, chi gioca in attacco


TESTO (Mc 13,33-37) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. 
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. 
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!»


COMMENTO

Una di quelle parole fatta su misura per i cristiani di oggi, non peggio di quelli di ieri, e neppure peggio di quelli dell’altro ieri, ma sicuramente alquanto assopiti. Dentro la categoria dei discepoli addormentati ci siamo dentro tutti: noi parroci, ma anche voi laici, nei non meno importanti ruoli educativi in famiglia o in associazioni cattoliche, o presunte tali. La vigilanza è la virtù del discernimento, che distingue nelle cose pratiche ciò che è bene da ciò che bene non è. Quanto spesso si sente dire: “Ma cosa c’è di male in questa cosa?” Invece dovremmo porre un’altra domanda: “Ma cosa c’è di bene in questa scelta, in questo progetto, in questa idea?”

Il Signore chiede ai suoi discepoli di ogni tempo di non dormire, perché a ognuno di noi viene chiesto di giocare il non facile compito del portiere della casa. Altri servi hanno altre mansioni, ma noi dobbiamo vigilare per noi e anche per il bene dei fratelli che vivono nella nostra stessa casa.
 A livello personale dobbiamo vegliare su cosa entra nella “casa” del nostro cuore; ogni giorno alla fine della giornata, come ci invita a fare papa Francesco, dovremmo chiedere: “da dove vengono questi pensieri che ho in mente? Chi me li ha ispirati?” E poi dire a noi stessi che non vogliamo quel male che ha attraversato, anche solo per un attimo, la nostra mente.

 A livello sociale ed ecclesiale, dovremmo forse smettere di giustificare la nostra arrendevolezza dicendo che ormai il mondo va così. Nel far andare il mondo e la chiesa così … ci siamo anche noi, e su questo il Signore chiede di vigilare, perché a custodia della casa ha posto ciascuno di noi. Lui, il Signore, con la sua Pasqua ha riportato in vantaggio il regno di Dio sul Regno delle tenebre, ma noi cristiani, ora, dobbiamo difendere il risultato fino al 90°! 

mercoledì 22 novembre 2017

Commento al Vangelo della Domenica 26 novembre, Solennità di Cristo Re dell'Universo.



          
 Là dove inizia il Regno di Cristo


TESTO (Mt 25,31-46) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».



COMMENTO

Un’antica leggenda della Chiesa cristiana narra che alcuni barbari, giunti alla sede del Vescovo di Roma, imposero al diacono Lorenzo di mostrargli il tesoro della Chiesa. Il diacono Lorenzo accompagnò quelli in un luogo dove erano in attesa di essere accuditi una notevole quantità di poveri e disse: “i poveri: questo è il tesoro della Chiesa!” 
Più che sulla veridicità storica vale riflettere sulla coscienza che i cristiani hanno sempre avuto fin dall’antichità di avere nei poveri un’intensiva presenza del loro Signore e Salvatore Gesù. 

Servire, sollevare e aiutare una persona in difficoltà significa onorare lo stesso Cristo, a partire dalla sua scelta di farsi povero e bisognoso lui stesso e di legare quindi la sua vicenda umana a quella degli ultimi della storia. 
Riflettiamo sull’onore che riserviamo alle reliquie dei santi, a ciò che resta della Santa Croce, o addirittura alla venerazione che abbiamo per la Sacra Sindone di Torino, per il fatto che avrebbe avvolto il cadavere di Cristo. Quanto più onore e rispetto dovremmo avere per degli uomini che nella loro esperienza di vita sono riconosciuti dallo stesso Figlio di Dio “luogo” teologico della sua presenza, e quindi reliquie viventi della sua presenza in mezzo a noi! 

La consueta obiezione rivolta a questa sensibilità verso gli ultimi, come se essa fosse un modo strumentale di servirsi dell’altrui sofferenza per guadagnarsi la vita eterna, laddove si dovrebbero piuttosto rimuovere le cause di ogni povertà, trova risposta nella concretezza storica delle nostre società. Mai nessun sistema politico o economico è riuscito ad eliminare del tutto il disagio, la malattia, la marginalità sociale. Gesù d’altronde lo aveva detto: “i poveri li avrete sempre con voi”. La presenza di malati e bisognosi connoterà l’umanità fino alla fine di questo mondo come segno inevitabile della sua fragilità e delle inevitabili conseguenze del male. La speranza tuttavia non ci abbandona: il Regno di Cristo si dilata non attraverso modelli economici imposti dall’alto, o attraverso modelli istituzionali innovativi, ma solo attraverso la fantasia della carità dei singoli attori dell’umanità. Cristo regnerà alla fine dei tempi per giudicare la storia, ma oggi siamo noi, nei nostri ambiti di vita, a dover dare un giudizio pratico, a dover fare un discernimento, per far regnare nelle nostre coscienze la logica del dono su quella dell’utilità personale.  

giovedì 16 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 19 novembre 2017, XXXIII del TO, anno A




ACCANIMENTO ANTI-SINDACALE


TESTO ( Mt 25,14-30 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. 

Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.



COMMENTO

Ci risiamo! Il solito comportamento anti-sindacale, anti-democratico e anti-egualitario di Gesù. Proprio il servo che aveva un solo talento, e che per paura di perderlo e di non rendere niente al suo padrone, lo sotterra, si trova ad essere apostrofato nella parabola con il titolo di malvagio e pigro e quindi inutile. Ancora una volta Gesù con le sue parabole vuole stupire, rompere gli schemi troppo umani dei suoi uditori. Come quando una volta raccontò la parabola dell’operaio che, lavorando appena un’oretta, prende la stessa paga di quello che ha lavorato tutto il giorno, e addirittura viene pagato per primo.

La provocazione si pone a questo livello: quei talenti sono talmente produttivi che sarebbe bastato impiegarli in qualsiasi modo per portarli ad una seppur minima resa. Nel Regno di Dio non ci sono proprio mezze misure: o ci si gioca o si resta a guardare; o si cerca di investire la propria vita per il Bene degli altri (e di conseguenza anche per il nostro) oppure si perde tutto il bello della vita, che è la partecipazione alla gioia di Dio nello spendere, nello spendersi, nel voler affidare ad altri ciò che è proprio. 

Oltre alla potenzialità enorme anche di un solo talento, c’è la gratuita generosità di un padrone che si fida e si affida a dei collaboratori, e che anzi è desideroso di condividere con i suoi servi la propria ricchezza (leggi: gioia), anche se non ne avrebbe bisogno. Poniamoci infatti questa domanda: se era così facile far fruttare quel talento già solo portandolo ai banchieri, perché prima di partire per il viaggio non lo ha fatto il padrone stesso? Perché lui stesso non ha portato tutti i suoi talenti dai banchieri cosicché ritornando avrebbe ritirato il suo con l’interesse?
 Il fatto è che questo padrone vuole condividere gioia; più della semplice moltiplicazione della ricchezza il padrone vuole che questo avvenga per il tramite dei suoi servi, che allora diventano coprotagonisti del suo patrimonio e della sua benevolenza. 

Dio Padre ha un tesoro di amore immenso ma vuole che si riveli moltiplicandosi, anche nelle strettoie del cuore umano, e che anzi la sua misericordia si renda ancor più evidente nella capacità di noi uomini di accoglierla e metterla a frutto. Qui sta la vera e compiuta realizzazione della nostra umanità: compartecipare alla gioia che Dio ha nell’essere dono per gli altri.

giovedì 9 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 12 novembre 2017, XXXII del TO anno A




       Olio per lampade cercasi


TESTO (Mt 25,1-13)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 

A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. 

Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. 
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».


COMMENTO

Ormai verso la fine dell’anno liturgico e con l’approssimarsi della Solennità di Cristo Re dell’Universo, di quel Cristo che tutto ricapitola nel giudizio finale, i Vangeli di queste Domeniche ci invitano a riflettere sulla realtà dell’incontro finale col nostro Salvatore, il Signore Gesù. 

In questa parabola ci sono dieci vergini che rappresentano la totalità di un’umanità che cerca con tutte le proprie forze il proprio sposo, cioè il termine della propria ricerca di felicità. La verginità è un po’ il simbolo della donazione totale, e in effetti possiamo ben dire che il cuore dell’uomo in un modo o in un altro, forse a volte in modo sbagliato, è comunque teso alla felicità, ed è per questo che ciascuno di noi naturalmente è sempre un essere “in uscita”, perché sente di non bastare a sé stesso. 

Il punto è che secondo il narratore cinque sono sagge, e portano oltre alle lampade dell’olio in piccoli vasi; cinque sono stolte e hanno solo le lampade. Quell’olio che trovano le prime profuma già di un incontro finale; quell’olio che le sagge approvvigionano è già il frutto di un desiderio così intenso che le rende capaci di riconoscere lo sposo nei piccoli gesti quotidiani, nei piccoli del mondo (svantaggiati, malati, sofferenti), in tutte quelle situazioni in cui lo Sposo-Salvatore ama velarsi per non uccidere la nostra libertà. Ecco i piccoli vasi delle cinque sagge! 

Tra l’uscita per andare incontro allo sposo e l’ingresso alla festa nuziale c’è un “frattempo”; esso è questo tempo che stiamo vivendo in cui siamo chiamati a riconoscere la presenza del Signore in ogni frammento della nostra giornata. 

Quante persone tristi e sconsolate ci passano accanto! Nel dar loro calore umano troviamo la presenza nel mistero del Signore Gesù che, come olio, ravviva la lampada della nostra speranza e desiderio di Lui. 
Quante persone assetate di affetto attraversano la nostra giornata! Nel donar loro il nostro affetto faremo esperienza di un affetto ben più grande, quello del Signore stesso. Tutti i piccoli del mondo saranno allora i piccoli vasi in cui incontreremo e riceveremo l’unzione di Cristo, che ci preparerà per l’incontro finale quando lo vedremo “faccia-a-faccia”, così come Egli è. 
Chi non riconosce il mistero di Dio rendersi presente in Cristo Gesù, e nei piccoli del mondo, non potrà ricevere l’olio della sua presenza e la sua attesa si spegnerà. Per questo il Signore dirà loro: “non vi conosco”. 

giovedì 2 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 5 novembre, XXXI del TO anno A

       

 La maschera del potere


TESTO (Mt 23,1-12) 

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. 
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».


COMMENTO

La categoria professionale degli scribi, gli scribi erano gli esperti della legge mosaica, è da tempo estinta ma ne permangono le malattie professionali. Lo stesso si potrebbe dire per i farisei. 
Il servizio o il ruolo conferito da un incarico di tipo religioso o ecclesiastico, sebbene viviamo in un mondo secolarizzato, può diventare occasione di inciampo, per sé e quindi per gli altri. 

Gesù infatti continuerà questa rimprovero indiretto con una serie di invettive, questa volta rivolte in prima persona a scribi e farisei, la prima delle quali è appunto: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che chiudete il Regno dei Cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare” (Mt 23,13).
Si deve costatare che l’autorità in ambito religioso si presta facilmente a possibili abusi, perché appoggiandosi sull’elemento “sacro” può essere usata per far violenza sulla buona fede delle coscienze, in modo molto sottile e nascosto. 

Nella Chiesa di oggi quanti pastori, ma anche educatori, o capi di associazioni cattoliche, si tengono ben stretti i privilegi che derivano loro dal ruolo ma non fanno secondo quanto insegna quella Chiesa di cui dovrebbero essere invece guide credibili e coerenti. Non si tratta semplicemente dell’assegno di sostentamento che i sacerdoti percepiscono, ma i piccoli vantaggi sono più banalmente anche la gratificazione, per certi laici, di essere responsabili di un piccolo ambito associativo. Il ruolo diventa così la coperta per mascherare voragini di frustrazioni della passata vita personale. Anzi, addirittura l’istituzione Chiesa può diventare nemica perché non ci permette di assumere incarichi di rilievo per alcune scelte di vita che di fatto sono pubbliche contro-testimonianze del suo messaggio. Piace ancora oggi a molti essere chiamato “capo” o “presidente” … e quant’altro!

Personalmente penso spesso a quella frase di San Pio da Pietrelcina rivolta a noi sacerdoti: “Povero Gesù quando viene consacrato nelle mani di certi sacerdoti! Ma poveri, certi sacerdoti, quando un giorno si troveranno nelle mani di Gesù!”

venerdì 27 ottobre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 29 ottobre 2017, XXX del TO anno A



ALLA RADICE DI TUTTO



TESTO  (Mt 22,34-40)

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». 
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».

COMMENTO

Una nuova domanda a Gesù, ma con un salto notevole nel livello di difficoltà, sembrerebbe, rispetto a quella ascoltata nel Vangelo di Domenica scorsa. Là lo si interrogava sulla liceità del pagamento delle tasse; qui una domanda ancor più radicale: “Quale è il grande comandamento?” Come dire: tra tutte le cose che la nostra legge ci dice di osservare, quale è il nocciolo, il cuore di tutto; potremmo dire, lo spirito profondo che deve accompagnare ogni adempimento di ciò che è scritto nella Legge e predicato dai Profeti?

Gesù non inventa niente, anzi ritorna alla legge ebraica citando il libro del Deuteronomio: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Gesù aggiunge anche, citando questa volta il libro del Levitico, il secondo comandamento simile al primo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”.

Posso testimoniare che quando rivolgo la stessa domanda ai ragazzi di Catechismo ( “Quale è il grande comandamento”) non so perché, ma quasi nessuno conosce il primo (“amerai il Signore tuo Dio …) e tutti invece conoscono il secondo sull’amore del prossimo. La cosa mi preoccupa, dato che questo corrisponde ad una mentalità generale diffusa tra noi cristiani: il fatto cioè che l’esperienza cristiana sia una sorta di regola di vita alla “volemose bene” (come direbbero a Roma), in un generico atteggiamento di reciproco rispetto. 

In realtà la scelta cristiana è primariamente il riconoscimento di un “Tu”, di un Altro, del Dio di Gesù Cristo, (che è anche lo stesso Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe) come mio Creatore e Salvatore. Gesù ce ne ha svelato un volto ancora più bello e luminoso; il volto di un Padre dai tratti tenerissimi e materni, un volto ed una presenza che sempre ci accompagna e che sempre è alla ricerca del nostro bene e del compiersi del nostro destino di eterna felicità. Amare Dio non serve a Lui, ma rende noi uomini più uomini, e più capaci di amarci tra noi. Ecco perché il secondo comandamento, l’amore del prossimo, è simile al primo.

mercoledì 18 ottobre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 22 ottobre 2017, XXIX Dom TO anno A

  

… L’AVETE FATTO A ME       


TESTO (Mt 22,15-21)

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi. 
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». 
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».


COMMENTO

Gesù conosce la malizia dei suoi interlocutori e per questo non spreca parole. Il suo parlare è ermetico e conciso in proporzione alla chiusura del cuore di chi lo ascolta. La questione posta a Gesù infatti non nasce da un desiderio di verità ma da un desiderio perverso, di trovare un appiglio per accusarlo. Le parole quindi sono misurate, essenziali, sobrie. Per capire se sia bene o no pagare il tributo all’impero romano, è sufficiente ricordare che occorre rendere ad ogni autorità ciò che gli spetta, seguendo il massimo e più onnicomprensivo criterio di giustizia: “a ciascuno il suo”. 

La risposta così equilibrata e calibrata non è frutto di mediazione per evitare le spiacevoli conseguenze di un “si” o un “no” netto, ma della consapevolezza che le due autorità sono comunque legate: tutto appartiene a Dio e quindi qualsivoglia potestà umana rientra nella volontà, fosse anche permissiva, di Dio. 

L’iscrizione e l’immagine di Tiberio Cesare sulla moneta dicono che a lui spetta qualcosa, un certo riconoscimento della sua potestà. Usando però la stessa modalità espressiva di Gesù, possiamo e dobbiamo dire che sul volto di ogni uomo, soprattutto il più svantaggiato e sfavorito, brilla l’immagine dell’uomo-Gesù. C’è un’immagine divina che brilla in ciascun uomo che chiede un rispetto ancora più grande ed ancora più sacro, perché tutto è in funzione dell’uomo e della sua salvezza. Dirà San Paolo: “Quindi nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1 Cor 3,21).

Con la sua risposta Gesù pone un fondamentale criterio di discernimento alla base di ogni problema di rapporto tra sfera politica e religiosa. Se occorre rendere a Dio ciò che a Lui spetta, ebbene occorrerà riconoscere che tutto viene da lui, anche l’autorità umana, anche il giusto rispetto ai Cesari di turno; ma nella persona stessa di Gesù si comprende il volto di un Dio che è altresì tutto donato all’uomo, per la sua eterna realizzazione.

 Nessun uomo, nessuna organizzazione o associazione umana potrà o dovrà travalicare i confini della dignità dell’uomo. Perché è per lui che Dio si è incarnato, umiliato nella morte di croce e poi risorto nella gloria. Ogni uomo varrà sempre ben di più della moneta più preziosa, perché in lui rimarrà impresso per sempre il volto di un Dio sofferente che ha preso sulle spalle la nostra storia di dolore.

giovedì 12 ottobre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 15 ottobre 2017, XXVIII Tempo Ordinario anno A


              

 Dress code: abito nuziale di lino fino


TESTO:  (Mt 22,1-14)

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse: 
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire. 
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 

Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali. 

Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”. 
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».


COMMENTO

Si chiama “dress code”, che tradotto significa “codice d’abbigliamento”, il tipo d’abbigliamento richiesto per una festa, per un happening o per partecipare ad un evento: “Casual”, “formal”, e così via.
 Quando venne Obama a Milano si richiese ai partecipanti “camicia senza cravatta”. Alla festa di nozze con Cristo sposo è richiesto invece: “abito nuziale”. Domanda: come dovrà essere fatto questo abito nuziale? Perché più o meno tutti coloro che si interessano a Cristo e al messaggio del suo Vangelo, vorrebbero partecipare a questo grande banchetto che, si dice, sarà proprio “la fine del mondo”! 

La simbologia nuziale in realtà non è rara nei testi sacri e attraversa un po’ tutta la Bibbia: dalla prima coppia Adamo-Eva, alle nozze escatologiche (cioè alla fine del mondo) tra Cristo-sposo e la Chiesa-sposa. Nel libro dell’Apocalisse troviamo la profezia della Gerusalemme celeste, simbolo della Chiesa, che è vista “scendere dal cielo, da presso Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo” (Ap 19,7) il Cristo.

Ma sempre nell’Apocalisse troviamo ancora un’altra immagine in cui si annunciano le nozze dell’agnello (il Cristo) con la sua sposa (sempre la Chiesa) e nella visione profetica raccontata dall’autore dell’Apocalisse c’è una folla immensa che grida a squarcia gola: “Rallegriamoci ed esultiamo e diamo a lui la gloria, perché sono giunte le nozze dell'Agnello e la sua sposa si è preparata. Le è stato dato di vestirsi di lino fino, risplendente e puro; poiché il lino fino sono le opere giuste dei santi» (Ap 19,7-8).
Qui capiamo dunque come deve essere fatto l’abito nuziale: di lino fino perché il lino fino sono le opere giuste dei santi. 

Nella parabola raccontata da Gesù il papà dello sposo, sdegnato dal rifiuto degli invitati, manda i suoi servi a chiamare tutti quelli che troveranno per strada “…cattivi e buoni”. Tutti divengono invitati, anche i cattivi, ma una sola condizione è richiesta: rivestirsi della giustizia di Cristo. La giustizia dell’uomo non può bastare per gustare il banchetto nuziale del Regno di Dio. Il Signore Gesù ci dona il suo abito, la sua veste di lino, il suo cuore nuovo, perché noi possiamo amare come Lui ha amato. Di qui la gravità del rifiuto dell’abito nuziale che significa il non accettare la novità di Cristo, o se vogliamo il non accettare il fatto di aver bisogno di essere rivestiti della sua misericordia, della sua salvezza. Noi non ci salviamo da soli, solo Cristo può farlo e le nostre scelte di vita testimonieranno il nostro assenso alla sua Grazia!

martedì 3 ottobre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 8 ottobre 2017, XXVII TO anno A



Affittuari ... quasi padroni


TESTO (Mt 21,33-43)

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo». 
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».

COMMENTO

C’è un piccolo ma decisivo inciampo in tutto il ragionamento dei contadini di questa parabola: hanno come dimenticato il fatto di aver ricevuto la vigna in affitto e che quindi non potranno mai diventarne proprietari. Il tentativo irragionevole di uccidere il figlio è conseguenza estrema della loro cecità, perché quale padre avrebbe permesso un simile furto, pur essendo rimasto senza figli?

I capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo hanno capito che Gesù stava facendo una chiara allusione al loro caso, alla loro palese usurpazione della vigna del Signore, cioè del popolo di Israele, di quel popolo da cui Dio aspettava frutti di giustizia, di pace e di misericordia. Invece i contadini che dovevano amministrarla ne hanno fatto un uso personale, a proprio godimento e glorificazione. Si sono dimenticati il loro ruolo, di amministratori e di pastori. Di loro Ezechiele avrebbe detto: “Guai ai pastori d'Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge.”  (Ez 11,2-3)

L’inciampo dei capi del popolo eletto è costituito dalla stessa persona di Gesù di Nazaret, che con il suo atteggiamento, con le sue scelte di vita, con il suo programma di misericordia, mostra a Israele e al mondo intero chi è il vero pastore, e come deve comportarsi un vero pastore, come cioè va accudita la vigna del Padrone.
I primi affittuari hanno dimenticato il loro ruolo di servitori, hanno pensato di divenire i padroni della messe. Gesù mette a nudo la loro meschinità con la sua stessa misericordia, con la diversità del modo di rapportarsi con il Padre e con gli uomini a lui affidati.

La luminosità dell’esempio del sacrificio di Gesù per il suo popolo sarà un permanente rimprovero per il mondo. Sul fondamento della parola e dell’esempio di Gesù inciamperanno e rovineranno tutti coloro che seguono fini e propositi di gloria propria, tanto è lampante la diversità di direzione di cammino, e il regno di Dio sarà di tutti coloro che nella persona di Cristo, vivranno gli stessi sentimenti del cuore.

giovedì 28 settembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 1 ottobre 2017, XXVI del TO, anno A

             

 Un “Si” che viene dal cuore 


TESTO (Mt 21,28-32) 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo». 
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».


COMMENTO

Il libro dei Proverbi ammonisce “Chi ricerca la giustizia e l’amore troverà vita e gloria”. (Pr 21,21) Gesù era capace di leggere nel cuore delle persone e forse nella coscienza di prostitute e ladri legalizzati (che erano i pubblicani) aveva notato un profondo desiderio di Bontà, un sincero desiderio di Dio, confermato dal fatto che alcuni di questi avevano creduto alla predicazione di Giovanni Battista. Nelle parole di Giovanni questi pubblici peccatori avevano trovato certamente una risposta alla loro insoddisfazione, alla loro insofferenza per una vita che, lontana dal Bene, non può dare gioia al cuore. In quello stesso desiderio profondo della coscienza umana per le cose vere, buone e belle, c’è già l’appello, la chiamata di Dio, di Cristo Salvatore.

Proprio ciò che manca ai cosiddetti giusti interlocutori di Gesù, a quelli che si fermano ad un’osservanza formale, ad un “Si” detto solo con la superficie del cuore, pensando che sia sufficiente frequentare il tempio di Gerusalemme, ma che trascurano di accogliere nel tempio del proprio cuore e della propria vita, la luce dell’amore di Dio. I capi dei sacerdoti e gli anziani a cui Gesù sta parlando non sono certamente persone cattive, anzi proprio perché non biasimabili per evidenti immoralità, sono tentati nell’orgoglio di una “giustizia fai da te” che non diventa giustizia del cuore, tenerezza di relazioni fraterne e ascolto profondo della Parola di Dio.

Troppo spesso anche nel cuore dei cristiani, specie se già inseriti in qualche realtà ecclesiale, si fa strada la supponenza di essere già posto, di essere nel numero di chi fa già qualcosa di buono per il Regno di Dio. Nel cuore del credente a volte si spengono le domande.
In un testo liturgico invece siamo invitati a pregare proprio così: “A quanti cercano la verità, concedi la gioia di trovarla, - e il desiderio di cercarla ancora, dopo averla trovata”  (dalle intercessioni Vespri lunedì III settimana Salterio)

Bella la testimonianza di P. Tiboni, missionario comboniano per tanti anni in Africa: “I miei amici africani dicono: «Una risposta senza domanda è un non senso». Se manca la domanda, il desiderio di infinito, la scoperta della propria umanità, allora anche Gesù Cristo resta come una risposta a una domanda che non esiste. Noi dicevamo: «La risposta è Cristo», ma per capirla ci deve essere la domanda”. Non sentiamoci mai a posto perché chi accoglie la parola del Signore è sempre in cammino.

giovedì 21 settembre 2017

Commento al Vangelo della XXV Domenica del Tempo Ordinario, anno A, 24 settembre 2017





MISERICORDIATI A TEMPO INDETERMINATO


TESTO (Mt 20,1-16)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”.

Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. 

Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».


COMMENTO

All’avanzare del giorno calano le pretese lavorative di questi lavoratori a tempo determinato, determinatissimo, appena qualche ora. Quelli dell’alba stipulano un accordo verbale: un denaro al giorno. Poi il padrone della vigna assume alle nove altri operai. La giornata è già iniziata, la possibilità di trovare lavoro è più scarsa, e allora per convincerli ad andare nella vigna è sufficiente promettere “quello che è giusto”.

Ma la giornata avanza ancora e arriviamo addirittura al pomeriggio, quando mai nessuno assumerebbe operai per lavorare appena un’ora. Le attese degli operai sono quasi nulle. Il padrone dice “andate” e questi vanno, senza nessuna altra promessa o impegno da parte del datore di lavoro. Egli in questo caso non dice neppure “vi darò quello che è giusto”. Nessuno li ha presi ed essendo disoccupati, forse vale la pena lavorare anche per poco più di nulla, magari rischiare anche di lavorare gratis, sperando nella pura bontà del padrone.

Le meraviglie non finiscono qui. Anzi iniziano proprio ora, al momento di fare i conti.

La parabola è provocatoria e costruita in modo tale da far saltare i nervi agli alfieri dei diritti sindacali. Perché addirittura i primi ad essere pagati sono gli ultimi ad essere stati assunti e ricevono lo stesso denaro promesso ai braccianti delle sei di mattina. Logica vorrebbe, e così pensavano di fatto questi, che la paga per la giornata intera fosse un po’ più di quella pattuita. In questo elemento di contraddizione si gioca il messaggio di Gesù. 
Non siamo forse tutti noi operai dell’ultima ora? Chi di noi può vantare diritti di fronte alla smisuratezza della misericordia di Dio? Detto altrimenti: non navighiamo tutti sulla stessa barca di quella umanità che in un modo o in un altro non riesce a corrispondere alla benevolenza di Dio? … e che quindi ha sempre bisogno di un intervento supplementare di bontà, di paga extra, rispetto alla scarsezza dei meriti personali?

Qui il punto: sentirci in diritto di fronte a Dio ci rende ultimi, perché incapaci di cogliere l’essenza della sua salvezza: pura Grazia. Dovremmo essere sempre come gli operai delle cinque del pomeriggio, cioè metterci al lavoro abbandonandoci alla pura benevolenza del nostro Padre celeste, perché l’unico operaio delle sei di mattina è Cristo stesso, l’unico ad aver lavorato da sempre per il Regno di Dio. 

sabato 16 settembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 17 settembre 2017, XXIV del TO anno A




    La forza disarmante del perdono


TESTO (Mt 18,21-35)

In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito. 

Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.

Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».


COMMENTO

All’ingresso del Sermig di Torino ho notato una scritta su pietra a caratteri cubitali che diceva ( e continua a dire ) a chi varca quella soglia: “l’Amore è disarmante”. Mi sembra una frase ad effetto, sintetica, ricca e carica di significato; ma c’è anche qualcosa di più, cioè una grande verità: che la forza dell’amore vince su tutto, anche sulle logiche di violenza, di morte e di sopraffazione. 

L’amore, che nella situazione contingente e concreta di un’offesa assume il volto del perdono, è l’unico atteggiamento vincente. Vorrei dire addirittura: è l’unico atteggiamento conveniente anche dal punto di vista pratico, prima di ogni riflessione di tipo evangelico. L’odio genera odio, l’offesa suscita e accende la rivalsa, in una spirale inarrestabile in cui l’unico antidoto può essere solo un atteggiamento esattamente opposto, che non tiene conto del male subito, pur continuando a reclamare e a domandare giustizia. 

Ma proprio a questo proposito il perdono viene spesso frainteso con l’arrendevolezza, con la rinuncia a far valere qualsivoglia principio di giustizia, con la paura. Il perdono è invece la suprema forma di Carità, l’atto di amore più grande, che non rinuncia alla giustizia ma anzi la supera. Chi chiede giustizia reclama ciò che a lui spetta, esige riparazione e di essere reintegrato nella condizione prima dell’offesa (per quanto possibile); chi perdona reclama, oltre la giustizia, un bene ancora più grande: il bene dell’altro, il bene che è la persona stessa, pur portatore di offese.

La parabola di Gesù mette in luce il circuito vitale del perdono. Il racconto riportato ha un blocco logico. Chi condona un debito non può normalmente ritornare sui suoi passi. Chi strappa una cambiale da riscuotere non può più vantare il suo credito. Ma proprio su questo punto strano, invece, si gioca il messaggio di Gesù: se non perdoniamo interrompiamo la comunicazione con la fonte della misericordia che è il cuore di Dio Padre. Non perdonare a chi ci fa un torto sarebbe come rescindere il legame con Colui che, solo, perdonandoci tutto ci dà la forza di perdonare.

domenica 3 settembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 10 settembre 2017, XXIII del TO , anno A





        POTENZA DELLA COMUNIONE


TESTO ( Mt 18,15-20 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano. 
In verità io vi dico: 
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro».


COMMENTO

Nel capitolo 16 del Vangelo di Matteo Pietro è stato definito da Gesù la pietra su cui egli avrebbe costruito la sua Chiesa, colui che ha il potere di legare e sciogliere, una sorta di plenipotenziario dello stesso Gesù. 
Il brano di oggi aggiunge un aspetto importantissimo a quanto già detto dal Signore. L’autorità che ricade su Pietro deriva dal suo essere a servizio di una comunità. Pietro non è un’autorità solitaria, ma il primo servitore di una comunione a cui Cristo lega il suo messaggio, la sua missione e la sua stessa persona. Dopo aver detto “tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo”, Gesù aggiunge anche “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.

Più che una delega in bianco agli apostoli, quindi, sembra la decisione di ritirarsi dal palco scenico, dal ruolo di attore protagonista, e di passare alla cabina di regia, per ispirare dall’Alto, o meglio da dentro le coscienze, la vicenda e le sorti della sua comunità. Cristo sarà attualmente presente col suo Spirito dove due o più saranno capaci di creare comunione, nel mettersi d’accordo per chiedere qualcosa. 
Da qui nascerà una vera comunità, che a buona ragione, potrà essere chiamata “Corpo”, il corpo di Cristo appunto, la Chiesa. Mai un’autorità potrà essere esercitata legittimamente nella chiesa di Cristo in modo solitario.

 Anche se questo fosse fatto, abusando di un ruolo ricevuto dalla gerarchia ecclesiale, sarebbe comunque una usurpazione di ciò che, secondo il senso della volontà del Signore, deve sempre passare attraverso il discernimento di una comunità di fratelli che custodiscono la coscienza della presenza del Signore in mezzo a loro, e nella quale ovviamente ci sarà qualcuno che avrà la responsabilità della decisione ultima.

martedì 29 agosto 2017

Commento al Vangelo di Domenica 3 settembre 2017, XXII del TO anno A



                 
 Il capolavoro di Cristo


TESTO (Mt 16,21-27)

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 

Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».


COMMENTO

Abbiamo sentito nel Vangelo di Domenica scorsa, Pietro prendere la parola a nome del gruppo dei discepoli per definire l’identità di Gesù: il Cristo, sarebbe a dire il prescelto di Dio.
Ora Pietro prende la parola per rappresentare i discepoli, ma anche l’umanità tutta, nella difficoltà di comprendere il mistero di Cristo crocifisso, di un salvatore che stranamente dovrà molto soffrire e addirittura essere ucciso, prima di risorgere.

Solo lo Spirito di Pentecoste farà comprendere al gruppo dei discepoli ciò che le loro orecchie da sole, e i loro cuori, non potevano comprendere. Pietro è già beato perché il Padre nei Cieli gli ha già rivelato che Gesù è il Messia ma questa rivelazione si dovrà completare nel passaggio della croce, nel travaglio del parto dell’uomo nuovo Cristo Gesù, crocifisso e risorto per noi, che manda il suo Spirito, e guida alla verità tutta intera, quella verità che in questo momento i discepoli non riescono a portare e sopportare in tutto il suo peso.

Pietro, in questo momento, è ancora troppo immerso nella mentalità del mondo che cerca salvezze immediate e a basso prezzo; per questo è di scandalo, cioè di impedimento a Gesù stesso. Egli giustamente è convinto che il Signore, il Cristo, non fallirà la sua missione di salvezza dell’uomo dal male del mondo; tuttavia non ha capito che questa salvezza passerà per l’offerta della propria vita, per poi essere ripresa. Al contrario: chi cercherà di salvarla a tutti i costi la perderà per la vita eterna. 

In effetti per poter dire di aver sconfitto una malattia non ci accontenteremmo di guarire in un modo o in un altro, cento, mille o un milione di persone affette da questa malattia, ma vorremmo essere sicuri di aver trovato un vaccino o un antidoto sicuro e affidabile contro il male stesso. Gesù di Nazareth non ha lottato e sopraffatto delle persone malvage. Lui ha lottato e sopraffatto il male che agiva in loro, con l’arma e l’antidoto più sicuro: la misericordia divina. Chi ricorrerà a Cristo e alla sua Grazia, troverà sempre la medicina sicura e decisiva per la salvezza e la vittoria finale.