giovedì 30 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 3 dicembre 2017, I di Avvento anno B




Chi gioca in porta, chi gioca in attacco


TESTO (Mc 13,33-37) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare. 
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati. 
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!»


COMMENTO

Una di quelle parole fatta su misura per i cristiani di oggi, non peggio di quelli di ieri, e neppure peggio di quelli dell’altro ieri, ma sicuramente alquanto assopiti. Dentro la categoria dei discepoli addormentati ci siamo dentro tutti: noi parroci, ma anche voi laici, nei non meno importanti ruoli educativi in famiglia o in associazioni cattoliche, o presunte tali. La vigilanza è la virtù del discernimento, che distingue nelle cose pratiche ciò che è bene da ciò che bene non è. Quanto spesso si sente dire: “Ma cosa c’è di male in questa cosa?” Invece dovremmo porre un’altra domanda: “Ma cosa c’è di bene in questa scelta, in questo progetto, in questa idea?”

Il Signore chiede ai suoi discepoli di ogni tempo di non dormire, perché a ognuno di noi viene chiesto di giocare il non facile compito del portiere della casa. Altri servi hanno altre mansioni, ma noi dobbiamo vigilare per noi e anche per il bene dei fratelli che vivono nella nostra stessa casa.
 A livello personale dobbiamo vegliare su cosa entra nella “casa” del nostro cuore; ogni giorno alla fine della giornata, come ci invita a fare papa Francesco, dovremmo chiedere: “da dove vengono questi pensieri che ho in mente? Chi me li ha ispirati?” E poi dire a noi stessi che non vogliamo quel male che ha attraversato, anche solo per un attimo, la nostra mente.

 A livello sociale ed ecclesiale, dovremmo forse smettere di giustificare la nostra arrendevolezza dicendo che ormai il mondo va così. Nel far andare il mondo e la chiesa così … ci siamo anche noi, e su questo il Signore chiede di vigilare, perché a custodia della casa ha posto ciascuno di noi. Lui, il Signore, con la sua Pasqua ha riportato in vantaggio il regno di Dio sul Regno delle tenebre, ma noi cristiani, ora, dobbiamo difendere il risultato fino al 90°! 

mercoledì 22 novembre 2017

Commento al Vangelo della Domenica 26 novembre, Solennità di Cristo Re dell'Universo.



          
 Là dove inizia il Regno di Cristo


TESTO (Mt 25,31-46) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: 
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 
Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 
Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 
Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 
Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».



COMMENTO

Un’antica leggenda della Chiesa cristiana narra che alcuni barbari, giunti alla sede del Vescovo di Roma, imposero al diacono Lorenzo di mostrargli il tesoro della Chiesa. Il diacono Lorenzo accompagnò quelli in un luogo dove erano in attesa di essere accuditi una notevole quantità di poveri e disse: “i poveri: questo è il tesoro della Chiesa!” 
Più che sulla veridicità storica vale riflettere sulla coscienza che i cristiani hanno sempre avuto fin dall’antichità di avere nei poveri un’intensiva presenza del loro Signore e Salvatore Gesù. 

Servire, sollevare e aiutare una persona in difficoltà significa onorare lo stesso Cristo, a partire dalla sua scelta di farsi povero e bisognoso lui stesso e di legare quindi la sua vicenda umana a quella degli ultimi della storia. 
Riflettiamo sull’onore che riserviamo alle reliquie dei santi, a ciò che resta della Santa Croce, o addirittura alla venerazione che abbiamo per la Sacra Sindone di Torino, per il fatto che avrebbe avvolto il cadavere di Cristo. Quanto più onore e rispetto dovremmo avere per degli uomini che nella loro esperienza di vita sono riconosciuti dallo stesso Figlio di Dio “luogo” teologico della sua presenza, e quindi reliquie viventi della sua presenza in mezzo a noi! 

La consueta obiezione rivolta a questa sensibilità verso gli ultimi, come se essa fosse un modo strumentale di servirsi dell’altrui sofferenza per guadagnarsi la vita eterna, laddove si dovrebbero piuttosto rimuovere le cause di ogni povertà, trova risposta nella concretezza storica delle nostre società. Mai nessun sistema politico o economico è riuscito ad eliminare del tutto il disagio, la malattia, la marginalità sociale. Gesù d’altronde lo aveva detto: “i poveri li avrete sempre con voi”. La presenza di malati e bisognosi connoterà l’umanità fino alla fine di questo mondo come segno inevitabile della sua fragilità e delle inevitabili conseguenze del male. La speranza tuttavia non ci abbandona: il Regno di Cristo si dilata non attraverso modelli economici imposti dall’alto, o attraverso modelli istituzionali innovativi, ma solo attraverso la fantasia della carità dei singoli attori dell’umanità. Cristo regnerà alla fine dei tempi per giudicare la storia, ma oggi siamo noi, nei nostri ambiti di vita, a dover dare un giudizio pratico, a dover fare un discernimento, per far regnare nelle nostre coscienze la logica del dono su quella dell’utilità personale.  

giovedì 16 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 19 novembre 2017, XXXIII del TO, anno A




ACCANIMENTO ANTI-SINDACALE


TESTO ( Mt 25,14-30 )

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. 

Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 

Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.



COMMENTO

Ci risiamo! Il solito comportamento anti-sindacale, anti-democratico e anti-egualitario di Gesù. Proprio il servo che aveva un solo talento, e che per paura di perderlo e di non rendere niente al suo padrone, lo sotterra, si trova ad essere apostrofato nella parabola con il titolo di malvagio e pigro e quindi inutile. Ancora una volta Gesù con le sue parabole vuole stupire, rompere gli schemi troppo umani dei suoi uditori. Come quando una volta raccontò la parabola dell’operaio che, lavorando appena un’oretta, prende la stessa paga di quello che ha lavorato tutto il giorno, e addirittura viene pagato per primo.

La provocazione si pone a questo livello: quei talenti sono talmente produttivi che sarebbe bastato impiegarli in qualsiasi modo per portarli ad una seppur minima resa. Nel Regno di Dio non ci sono proprio mezze misure: o ci si gioca o si resta a guardare; o si cerca di investire la propria vita per il Bene degli altri (e di conseguenza anche per il nostro) oppure si perde tutto il bello della vita, che è la partecipazione alla gioia di Dio nello spendere, nello spendersi, nel voler affidare ad altri ciò che è proprio. 

Oltre alla potenzialità enorme anche di un solo talento, c’è la gratuita generosità di un padrone che si fida e si affida a dei collaboratori, e che anzi è desideroso di condividere con i suoi servi la propria ricchezza (leggi: gioia), anche se non ne avrebbe bisogno. Poniamoci infatti questa domanda: se era così facile far fruttare quel talento già solo portandolo ai banchieri, perché prima di partire per il viaggio non lo ha fatto il padrone stesso? Perché lui stesso non ha portato tutti i suoi talenti dai banchieri cosicché ritornando avrebbe ritirato il suo con l’interesse?
 Il fatto è che questo padrone vuole condividere gioia; più della semplice moltiplicazione della ricchezza il padrone vuole che questo avvenga per il tramite dei suoi servi, che allora diventano coprotagonisti del suo patrimonio e della sua benevolenza. 

Dio Padre ha un tesoro di amore immenso ma vuole che si riveli moltiplicandosi, anche nelle strettoie del cuore umano, e che anzi la sua misericordia si renda ancor più evidente nella capacità di noi uomini di accoglierla e metterla a frutto. Qui sta la vera e compiuta realizzazione della nostra umanità: compartecipare alla gioia che Dio ha nell’essere dono per gli altri.

giovedì 9 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 12 novembre 2017, XXXII del TO anno A




       Olio per lampade cercasi


TESTO (Mt 25,1-13)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: 
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono. 

A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”. 

Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. 
Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».


COMMENTO

Ormai verso la fine dell’anno liturgico e con l’approssimarsi della Solennità di Cristo Re dell’Universo, di quel Cristo che tutto ricapitola nel giudizio finale, i Vangeli di queste Domeniche ci invitano a riflettere sulla realtà dell’incontro finale col nostro Salvatore, il Signore Gesù. 

In questa parabola ci sono dieci vergini che rappresentano la totalità di un’umanità che cerca con tutte le proprie forze il proprio sposo, cioè il termine della propria ricerca di felicità. La verginità è un po’ il simbolo della donazione totale, e in effetti possiamo ben dire che il cuore dell’uomo in un modo o in un altro, forse a volte in modo sbagliato, è comunque teso alla felicità, ed è per questo che ciascuno di noi naturalmente è sempre un essere “in uscita”, perché sente di non bastare a sé stesso. 

Il punto è che secondo il narratore cinque sono sagge, e portano oltre alle lampade dell’olio in piccoli vasi; cinque sono stolte e hanno solo le lampade. Quell’olio che trovano le prime profuma già di un incontro finale; quell’olio che le sagge approvvigionano è già il frutto di un desiderio così intenso che le rende capaci di riconoscere lo sposo nei piccoli gesti quotidiani, nei piccoli del mondo (svantaggiati, malati, sofferenti), in tutte quelle situazioni in cui lo Sposo-Salvatore ama velarsi per non uccidere la nostra libertà. Ecco i piccoli vasi delle cinque sagge! 

Tra l’uscita per andare incontro allo sposo e l’ingresso alla festa nuziale c’è un “frattempo”; esso è questo tempo che stiamo vivendo in cui siamo chiamati a riconoscere la presenza del Signore in ogni frammento della nostra giornata. 

Quante persone tristi e sconsolate ci passano accanto! Nel dar loro calore umano troviamo la presenza nel mistero del Signore Gesù che, come olio, ravviva la lampada della nostra speranza e desiderio di Lui. 
Quante persone assetate di affetto attraversano la nostra giornata! Nel donar loro il nostro affetto faremo esperienza di un affetto ben più grande, quello del Signore stesso. Tutti i piccoli del mondo saranno allora i piccoli vasi in cui incontreremo e riceveremo l’unzione di Cristo, che ci preparerà per l’incontro finale quando lo vedremo “faccia-a-faccia”, così come Egli è. 
Chi non riconosce il mistero di Dio rendersi presente in Cristo Gesù, e nei piccoli del mondo, non potrà ricevere l’olio della sua presenza e la sua attesa si spegnerà. Per questo il Signore dirà loro: “non vi conosco”. 

giovedì 2 novembre 2017

Commento al Vangelo di Domenica 5 novembre, XXXI del TO anno A

       

 La maschera del potere


TESTO (Mt 23,1-12) 

In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: 
«Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 
Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. 
Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 
Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».


COMMENTO

La categoria professionale degli scribi, gli scribi erano gli esperti della legge mosaica, è da tempo estinta ma ne permangono le malattie professionali. Lo stesso si potrebbe dire per i farisei. 
Il servizio o il ruolo conferito da un incarico di tipo religioso o ecclesiastico, sebbene viviamo in un mondo secolarizzato, può diventare occasione di inciampo, per sé e quindi per gli altri. 

Gesù infatti continuerà questa rimprovero indiretto con una serie di invettive, questa volta rivolte in prima persona a scribi e farisei, la prima delle quali è appunto: “Guai a voi scribi e farisei ipocriti, che chiudete il Regno dei Cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare” (Mt 23,13).
Si deve costatare che l’autorità in ambito religioso si presta facilmente a possibili abusi, perché appoggiandosi sull’elemento “sacro” può essere usata per far violenza sulla buona fede delle coscienze, in modo molto sottile e nascosto. 

Nella Chiesa di oggi quanti pastori, ma anche educatori, o capi di associazioni cattoliche, si tengono ben stretti i privilegi che derivano loro dal ruolo ma non fanno secondo quanto insegna quella Chiesa di cui dovrebbero essere invece guide credibili e coerenti. Non si tratta semplicemente dell’assegno di sostentamento che i sacerdoti percepiscono, ma i piccoli vantaggi sono più banalmente anche la gratificazione, per certi laici, di essere responsabili di un piccolo ambito associativo. Il ruolo diventa così la coperta per mascherare voragini di frustrazioni della passata vita personale. Anzi, addirittura l’istituzione Chiesa può diventare nemica perché non ci permette di assumere incarichi di rilievo per alcune scelte di vita che di fatto sono pubbliche contro-testimonianze del suo messaggio. Piace ancora oggi a molti essere chiamato “capo” o “presidente” … e quant’altro!

Personalmente penso spesso a quella frase di San Pio da Pietrelcina rivolta a noi sacerdoti: “Povero Gesù quando viene consacrato nelle mani di certi sacerdoti! Ma poveri, certi sacerdoti, quando un giorno si troveranno nelle mani di Gesù!”