giovedì 31 dicembre 2020

Commento al Vangelo della II domenica dopo Natale - 3 gennaio 2021


Sia la luce…e venne Gesù.
 

TESTO (Gv 1,1-18) 

In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era, in principio, presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui
e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre
e le tenebre non l’hanno vinta.
Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Era nel mondo
e il mondo è stato fatto per mezzo di lui;
eppure il mondo non lo ha riconosciuto.
Venne fra i suoi,
e i suoi non lo hanno accolto.
A quanti però lo hanno accolto
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali, non da sangue
né da volere di carne
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi abbiamo contemplato la sua gloria,
gloria come del Figlio unigenito
che viene dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me,
perché era prima di me». Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia.
Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.


COMMENTO

L’evangelista Giovanni ci riporta al principio, a ciò che era ancor prima della creazione. Il Natale di Gesù appena celebrato apre infatti uno spiraglio di luce sui misteri eterni di Dio. Poco o nulla noi uomini potremmo balbettare di Dio se lui per primo non si fosse fatto conoscere tramite i profeti, nell’Antico Testamento, e poi nella persona stessa di Gesù. In lui, dice San Giovanni, non solo tocchiamo la sapienza di Dio, la sua Parola, ma c’è la sua vita, la sua esperienza di figlio che tutto riceve da Dio Padre, e tutto a lui si dona. Questa stessa vita divina da figlio, totalmente accogliente e totalmente donata, è luce che risplende in un’umanità smarrita, che nel peccato di origine è chiusa nella propria autosufficienza individualista, e quindi orfana.

La vita eterna del Figlio di Dio ha cominciato a brillare anche nel nostro mondo creato, a partire proprio dalla persona storica di Gesù di Nazaret. Ciò che sostiene e che illumina la vita dei cristiani, ma anche di tutti gli uomini non è una sapienza da mettere in pratica, o una regola di vita da osservare, ma una vita – quella di Cristo - da trapiantare nel buio della propria esistenza. In fondo ci capita spesso di dire, parlando di una persona molto saggia, che è una persona “illuminata”; ebbene chi attraverso la via maestra (seppur non unica) dei Sacramenti entra in contatto con la Chiesa-corpo-di-Cristo-nella-storia, riceve la sua stessa presenza che trasfigurerà da dentro i propri gesti, le parole, il volto, i pensieri. Non si tratta di una pura metafora se San Paolo stesso dice: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me”. (Gal 1,20).

Chi accoglie nella fede la vita donata da Cristo Gesù, diventa lui stesso capace di donarsi come lui Cristo primo si è donato, e di essere una vita luminosa e una luce viva: luce di un amore totale che splende nelle tenebre dell’egoismo e della solitudine.

sabato 26 dicembre 2020

Commento al Vangleo della Festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe - 27 dicembre 2020 - I domenica dopo Natale



La segreta grandezza


TESTO (Lc 2,22-40)

 Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, [Maria e Giuseppe] portarono il bambino [Gesù] a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele».
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima –, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori».
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.


Commento

In questa prima Domenica dopo Natale la Chiesa ci invita a celebrare la Santa famiglia di Nazaret. Dato che siamo nell’anno dedicato a San Giuseppe - così come dichiarato da Papa Francesco con la lettera Patris corde (con cuore di padre) dello scorso 8 dicembre -, proprio di lui, San Giuseppe, vorrei sottolineare la grandezza; di lui a cui appena si accenna in questi versetti e di cui nei Vangeli e in tutto il Nuovo Testamento non viene riportata nemmeno una mezza parola, e che si defila dalla vicenda di Gesù in silenzio e in punta di piedi. Di lui non sappiamo neppure quando e dove morì. 

In lui contempliamo la vera paternità che si fa dono, servizio. Tutto il contrario dell’immagine autoritaria del padre-padrone espressa da chi è stato ferito dalla vita e ha assoluto bisogno di riscatto, di qualcuno su cui rivalersi, fossero anche figli o coniuge.

La sua paternità è più che discreta; è umile, trasparente, ma non per questo anonima, perché in lui risplende la versione umanamente più degna della paternità di Dio.

Nel Vangelo si dice che Giuseppe e Maria si stupivano delle cose che si dicevano del loro figlio Gesù. Ecco: un uomo che continua a stupirsi, che non evade dal suo senso religioso e che rispetta le tradizioni della sua comunità; il suo cuore è presente, aperto a tutto quello che stava avvenendo, anche lo superava di gran lunga. 

Sembra straordinario pensare che Gesù abbia imparato a pensare e a dire “papà” proprio a partire dal volto di quell’uomo così semplice e al contempo così ricco di umanità.

Auguri a tutte le famiglie che in questa famiglia trovano un modello. Ma un augurio particolare ai papà, e ad una categoria particolare di papà: quelli separati e che di conseguenza vivono poco tempo anche coi loro figli. “Il vostro ruolo, la vostra importanza non è sminuita. La prolungata assenza dallo sguardo dei vostri figli non vi faccia sentire dimenticati. C’è una paternità che si esercita anche nella lontananza, che si esercita in piccoli gesti, nella preghiera, che potrà essere riconosciuta dono grande quando il tempo avrà permesso di soppesare gli eventi, perdonare gli eventuali errori, e trattenere le cose migliori. Auguri!

mercoledì 16 dicembre 2020

Commento al Vangelo della IV Domenica di Avvento - anno B - 20 dicembre 2020

 

Eccomi


 

TESTO (Lc 1,26-38)

 
In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.



Commento

Quante volte molti di noi hanno pronunciato queste parole del saluto dell’angelo Gabriele: “Ave o Maria piena di Grazia,  – tradotto letteralmente – rallegrati piena di grazia!”?
Vi potremmo quasi trovare una sintesi delle profezie e delle attese dell’Antico Testamento riguardo il Messia, cioè il Salvatore. “Rallegrati” è l’invito alla gioia, a non perdere mai la consapevolezza che seppure in un mare di dolore non può più essere sradicato il seme della gioia. Perché? “Piena di grazia, il Signore è con te”. Ecco il motivo della gioia. L’umanità, da Maria in poi, è costantemente e pienamente accompagnata dall’amore gratuito di Dio. Noi sappiamo che da quel giorno in cui Maria ha detto “Eccomi” il figlio di Dio, il Verbo, non si è più staccato dalla nostra debole natura umana. Anche ora in Cielo Gesù, risorto e glorioso, è un Gesù che non si è spogliato della nostra umanità. 

Allora vale anche il viceversa: questa nostra umanità – quaggiù sulla terra - in cui tante lacrime e sofferenze ci accompagnano, non sono dimenticate, non sono nascoste al suo sguardo, alla sua misericordia. Ecco la più bella spiegazione che Dio ci dà del dolore umano facendosi uomo nel bambino Gesù. Papa Francesco al n. 57 della sua primissima Enciclica Lumen Fidei ci dice una cosa bellissima al riguardo: “All’uomo che soffre, Dio non dona un ragionamento che spieghi tutto, ma offre la sua risposta nella forma di una presenza che accompagna, di una storia di bene che si unisce ad ogni storia di sofferenza per aprire in essa un varco di luce”. (LF 57)

Con queste parole ci auguriamo di accogliere l’invito alla gioia che Dio ci rivolge, in questo Natale e in ogni momento della vita: il bambino Gesù è il nostro varco di luce. Anche a noi il Signore dice: “Io sono con te, sempre. Io gioisco e piango con te, e tu in me condividerai la gioia definitiva del Cielo!”. Dunque, lasciamoci contaminare dalla presenza del Signore e che questo Natale ci trovi tutti Gesù-positivi!

giovedì 10 dicembre 2020

Commento al Vangelo della III Domenica di Avvento - anno B - 13 dicembre 2020


 

ACCOGLIERE PER TESTIMONIARE


 

TESTO (Gv 1,6-8.19-28)

 

Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.

Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa».

Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo».

 Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.


COMMENTO

Giovanni Battista afferma la sua identità dinanzi ai sacerdoti e leviti ponendosi in relazione, in riferimento ad altro da sé, all’Altro, a Colui che come luce viene nel mondo. L’Evangelista stesso nel prologo lo presenta come colui che “venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui”.
Il Battista ci insegna così il segreto della grandezza della nostra umanità: il metterci in relazione al Figlio di Dio, Gesù, il Cristo, la luce venuta nel mondo. Se il Signore Gesù, lui stesso, dice che fa quello che vede fare dal Padre e che è venuto per fare la sua volontà, quanta più attenzione dovremmo avere noi, figli per grazia ricevuta!
Ma come è difficile pensarci come un dono per l’altro! Come è difficile per la nostra mentalità individualista accettare la nostra costitutiva vocazione alla comunione, e alla comunione in Cristo, come ricorda San Paolo all’inizio della Prima lettera ai Corinti!

Eppure Papa Francesco nella Christus vivit (n.286) rivolto a tutti i giovani dice che “Tante volte, nella vita, perdiamo tempo a domandarci: “Ma chi sono io?” Tu puoi domandarti chi sei tu e fare tutta una vita cercando chi sei tu. Ma domandati: “Per chi sono io?”…Dio ha posto in te molte qualità, inclinazioni, doni e carismi che non sono per te, ma per gli altri”.

Il Battista annuncia che in mezzo a loro è già presente il Messia, lo sposo dell’umanità a cui nessuno deve cedere tale diritto, perché gli compete per Natura, ma essi non lo conoscono, e non lo potranno conoscere proprio perché orientati a sé stessi, alla propria religiosità meritocratica. E anche Gesù dirà: “E come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44).

La parola d’ordine è proprio accoglienza, accoglienza della luce che viene ad illuminare il buio del mondo, del Cristo Gesù che viene a farci brillare di quella gloria che lui stesso riceve dal Padre e che ci trasmette nella forza dello Spirito Santo.


venerdì 4 dicembre 2020

Commento al Vangelo della II Domenica di Avvento - anno B - 6 dicembre 2020



Traslocare in Cristo

 

TESTO (Mc 1,1-8)

 Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio. Come sta scritto nel profeta Isaìa:
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero:
 egli preparerà la tua via.
Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri»,
vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati.
Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati.
Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».


Commento

  Abbiamo ascoltato i primi versetti del Vangelo di Marco: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, figlio di Dio”. Vangelo significa “buona notizia”. Gesù è venuto a portarci una buona notizia. La sua predicazione è una buona notizia! Sembra scontato ma non lo è. Anzi nel vangelo troviamo alcuni farisei che sembrano rimpiangere quando con la legge di Mosé si poteva ripudiare la propria moglie, e che con il completamento della legge introdotto da Gesù non conviene sposarsi.

La buona notizia (Euanghelion) è il suo messaggio di salvezza, la sua predicazione di ribaltamento totale delle sorti degli uomini (“Gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi”).

Ma dobbiamo aggiungere che Gesù stesso, la sua persona, è una buona notizia, lui è il Cristo, l’unto, il prescelto da Dio, quello da secoli attendeva il popolo di Israele. Il Salvatore, l’unico che ci offre prospettive di vita oltre quella soglia che è l’ultimo spauracchio anche dei più potenti della terra: sorella morte.

La fede cristiana, lo sappiamo, non è un insieme di regole o di dogmi religiosi, ma l’esperienza di un incontro con una persona vivente: Gesù risorto e vivo. È una buona notizia questa che dobbiamo continuamente far risuonare nei nostri cuori: Gesù è vivo e ci ama, ci ama dello stesso amore ricevuto dal Padre e con il quale si dona al Padre, per la nostra eterna salvezza.

Ma il bello è proprio qui: la conversione predicata dal Battista è per accogliere il Cristo che ci battezza (letteralmente: ci immerge) nello Spirito Santo, la terza persona della Trinità, il circolo, la corrente di amore tra lui – il Figlio - e il Padre. Questo è ciò che è avvenuto nel Battesimo, per chi lo ha ricevuto. Partecipare di questa esperienza di dono reciproco. Dirà San Paolo: “voi non avete ricevuto un spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma uno spirito da figli adottivi per mezzo del quale gridiamo. “Abbà Padre!” (Rm 8,14-17).

giovedì 26 novembre 2020

Commento al Vangelo della I Domenica di Avvento/B - 29 novembre 2020


Vegliate !

 
TESTO (Mc 13,33-37)

 
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento. È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare.
Vegliate dunque: voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati.
Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!».

 

Commento
 

Leggendo e meditando questo passo di vangelo non posso fare a meno di ricordare la mia professoressa di lettere del Liceo. Ogni giorno si rischiava di essere interrogati, anche due giorni di fila. Le domande, a dire il vero, erano abbastanza facili, ma il problema era che bisognava studiare sempre, senza alcuna possibilità di programmazione. Risultato: non si stava mai nell’ozio, non c’era mai un pomeriggio di totale inattività; e ora in età adulta riconosco, in effetti, quanto è bene per un ragazzo stare sempre un po' sul “chi va là!”.
 

Il Signore fa ancora meglio, e non ci vuole tenere sulle spine. Le domande sono anzi piuttosto semplici; le abbiamo ascoltate Domenica scorso: “avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere, nudo e mi avete vestito…”. La fatica invece è proprio sfuggire ad una relazione di “controllato-controllore”, una relazione servile, per stare in un rapporto di amicizia sincera e costante con Lui.
 

Gesù nel versetto appena precedente di questo brano dice: “Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli nel cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre”. Ecco: il Padre! La vigilanza richiesta da Gesù viene dal desiderio di vederci sempre gioiosamente abbandonati alla sua paterna cura. Come si potrebbe vegliare in modo permanente, durante tutta la notte, se non si trattasse in realtà di una disposizione del cuore, di un cuore di figlio, e non tanto di un vegliare in senso fisico! Un figlio che invoca la protezione del Padre celeste appena si alza di buon mattino, che lo ricorda durante la giornata, magari in frangenti difficili; un figlio che riconsegna al Padre i frutti della giornata prima di coricarsi a letto! Questo è quel vegliare che ci permette di non cadere in tentazione, come raccomandò Gesù al Getsemani, e che corrisponde al nostro più grande bene. Perché un cuore da figlio, non si improvvisa facilmente all’ultimo minuto!

venerdì 20 novembre 2020

Commento al Vangelo della Solennità di Cristo re dell'Universo - XXXIV Domenica del TO/A - 22 novembre 2020

 
Pecore o capre?


TESTO (Mt 25,31-46) 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra.

Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”.

Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.

Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”.

Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna».



COMMENTO
 

Arrivati alla fine capitolo 25 di Matteo, finalmente capiamo come fare per prendere olio per le lampade in attesa dello sposo Gesù, o per ben impiegare i talenti che questi ci affida: cinque, due o uno che siano. Semplicemente siamo chiamati a riconoscerlo presente in tutti gli ultimi del mondo in cui Lui ama identificarsi: gli affamati, gli assetati, i carcerati, i malati, perfino i forestieri. Che scandalo questo! Gesù si rende presente, oggi, perfino nei forestieri!

In quest’ultima domenica dell’anno liturgico, Solennità di Cristo re, capiamo una volta di più che il Vangelo di Gesù non è una teoria, ma una prassi, l’esperienza di un incontro con il mistero di Gesù, Dio-fatto-uomo, che può avvenire in ogni momento della giornata. Anzi dovremmo estendere la categoria di questi “fratelli più piccoli” agli affamati di verità, agli assetati di affetto, ai malati nello spirito, ricordando, come insegna la Chiesa, che accanto alle opere di misericordia corporale sono necessarie anche le opere di misericordia spirituale. Gesù, morto in croce per amore, lascia all’umanità la più contradditoria di tutte le eredità: i poveri.
Se a volte fratelli, o persone della stessa famiglia, arrivano a rompere i rapporti per dividersi un’eredità, chi di noi si immaginerebbe mai di disputare con un altro per avere in eredità il compito di occuparsi di una persona bisognosa?
 

Siamo ai vertici del paradosso del Vangelo. Eppure qui, negli ultimi del mondo, Dio Padre ha posto la sua benedizione e le primizie del suo regno, preparato fin dalla fondazione del mondo. Qui risiede il vero tesoro della Chiesa, e come difficilmente riconoscerà nel povero un tesoro chi non riconosce in Gesù di Nazaret quel Dio fatto povero che, come diceva San Francesco d’Assisi, è il “sommo bene, tutto il bene, e ogni bene!”.
Il Signore ci avverte, però: “dove è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore” (Lc 12,34).


giovedì 12 novembre 2020

Commento al Vangelo della XXXIII Domenica TO/A - 15 novembre 2020


 

La pigrizia malvagia
 

 

Testo (Mt 25,14-30)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì.
Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 

Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. “Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone –, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”.
Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 

Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

 

COMMENTO

La pigrizia del servo malvagio è diversa dalla pigrizia che probabilmente abbiamo in mente noi. Per noi una persona pigra è una persona che non ha voglia di fare, che non si muove, che non ama scomodarsi. Troviamo strano, allora, che il padrone della parabola accusi di pigrizia il servo che forse ha faticato più di tutti: ha preso quanto meno un piccone e ha scavato una buca tanto fonda da poterci nascondere con sufficiente tranquillità del denaro. Avrebbe faticato molto di meno affidandolo ai banchieri, come suggerito dal padrone stesso.
 La pigrizia maliziosa del servo fannullone è di non aver custodito in quel denaro una relazione con il donatore, con chi glielo aveva affidato. Per il servo sotterrare il talento ha significato sotterrare il suo rapporto con il padrone, limitare quella persona in una cosa messa sottoterra, in un giudizio tranciante: “Signore, so che sei un uomo duro”, tutto da verificare. 

Seconda questione: come poter far fruttare i talenti ricevuti? Da cinque farli diventare dieci, da due farli diventare quattro? La parabola non lo spiega, ma nella scia della parabola immediatamente precedente (le dieci vergini) comprendiamo che si tratterà di custodire la memoria di chi ci ha beneficato, di non perdere i tanti piccoli vasi di olio, le tante piccole occasioni per vivere la volontà di Dio, per alimentare la nostra relazione con Colui che da Padrone duro si disvelerà sempre più un padre misericordioso.
Con estrema concretezza sarà proprio il vangelo di Domenica prossima a spiegare con un’immagine “apocalittica” che fare la volontà di Dio consiste nel riconoscere la presenza del suo Figlio Gesù, povero e umiliato, in tutti i poveri e gli affamati della storia. E capiremo ancora meglio che la pigrizia maledetta non è il non far nulla, ma il fare tante cose, forse troppe, e fino ad affannarsi, tranne quelle che sono veramente importanti!

sabato 7 novembre 2020

Commento al Vangelo della XXXII Domenica del TO/A – 8 novembre 2020

 

 I piccoli incontri della vita
 

 

TESTO (Mt 25,1-13)         
 

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo. Cinque di esse erano stolte e cinque sagge; le stolte presero le loro lampade, ma non presero con sé l’olio; le sagge invece, insieme alle loro lampade, presero anche l’olio in piccoli vasi. Poiché lo sposo tardava, si assopirono tutte e si addormentarono.
 A mezzanotte si alzò un grido: “Ecco lo sposo! Andategli incontro!”. Allora tutte quelle vergini si destarono e prepararono le loro lampade. Le stolte dissero alle sagge: “Dateci un po’ del vostro olio, perché le nostre lampade si spengono”. Le sagge risposero: “No, perché non venga a mancare a noi e a voi; andate piuttosto dai venditori e compratevene”.
Ora, mentre quelle andavano a comprare l’olio, arrivò lo sposo e le vergini che erano pronte entrarono con lui alle nozze, e la porta fu chiusa. Più tardi arrivarono anche le altre vergini e incominciarono a dire: “Signore, signore, aprici!”. Ma egli rispose: “In verità io vi dico: non vi conosco”. Vegliate dunque, perché non sapete né il giorno né l’ora».
 

 

COMMENTO
 

La saggezza, ci dice Gesù nella parabola, consiste nel prendere “dell’olio in piccoli vasi”. Tutti gli uomini desiderano andare incontro ad un futuro che sia florido e ricco di vita; più in particolare tutti gli uomini animati da senso religioso desiderano incontrare, fare esperienza il più direttamente possibile del loro Dio, ma non tutti perseverano in questo intento. 

Non è solo questione di un desiderio inziale, ci dice Gesù. Occorre mantenere viva e accesa la lampada del desiderio in tutti i gesti e gli avvenimenti della vita. L’olio è segno di consacrazione con cui venivano unti re, sacerdoti e profeti nell’Antico Israele; l’olio è, però, anche segno, in alcuni episodi evangelici, della dedizione e della tenerezza con cui alcune donne riconoscono Gesù come “unto”, come Colui che può salvare, che il Padre ci ha mandato per mostrarci la sua misericordia.
Custodire l’olio in piccoli vasi significa alimentare l’attesa e il desiderio di riconoscere Gesù, risorto e vivo, e di poterlo toccare in tutti i gesti, le circostanze e gli incontri di cui è costellata una qualsiasi giornata. 

Il Signore non si nasconde, ma si lascia trovare da chi lo cerca con cuore indiviso e perseverante. Quanto spesso siamo veramente capaci di riconoscere e allo stesso tempo, di invocare la sua presenza nelle più o meno favorevoli situazioni? Dovremmo sempre custodire le parole della promessa di Gesù contenute nell’ultimo versetto del vangelo di Matteo: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo!” (Mt 28,20) e vivere la bellezza di questa promessa a partire da tutti i luoghi umani in cui Gesù vuole essere toccato e amato: gli affamati, i malati, i carcerati; tutti coloro che possono essere considerati “i piccoli della terra”, i piccoli vasi della presenza di Cristo. Ma questo è ciò che ascolteremo esattamente nel Vangelo della Solennità di Cristo Re, fra due domeniche.
 

giovedì 29 ottobre 2020

Commento al Vangelo della Solennità di Tutti i Santi, 1 novembre 2020



Una Parola che realizza


TESTO (Mt 5,1-12)

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».

 

COMMENTO
 

Questa solenne proclamazione della legge della felicità secondo il Vangelo di Gesù non sostituisce ma completa la legge già ricevuta dagli ebrei, tramite Mosè, sul monte Sinai. Gesù va alla radice di quelle 10 parole, o ammonimenti, che dovevano guidare il popolo di Dio non solo nel cammino verso la Palestina, ma soprattutto nel cammino verso la gioia vera.

Le beatitudini passano quindi da una morale del comportamento ad una morale dell’atteggiamento del cuore. Tramite, e nel suo figlio, Gesù, Dio non ci dice più “fai questo o non fare quest’altro” ma più radicalmente: “sarai felice se …, sei felice se …, se il tuo cuore sarà così…”.

“Come trasformare il cuore, allora?” tutto sommato sarebbe più facile fare delle cose, seppure controvoglia. Ma cambiare il cuore di pietra in un cuore di carne è possibile perché è lo Spirito di Gesù risorto che ha trasfigurato il nostro cuore. Le parole di Gesù sono spirito e vita. Se noi custodiamo le sue parole di verità e di vita, il suo Santo Spirito porterà a termine questo beato trapianto del cuore iniziato nel Battesimo e non si tratterà più di dovere inventare qualcosa ma di “custodire” la vita nuova in Cristo che ci è stata data appunto nel Battesimo. Proprio all’inizio dell’Apocalisse l’angelo annuncia all’apostolo Giovanni: “Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e custodiscono le cose che vi sono scritte: il tempo infatti è vicino” (Ap 1,3).

Sappiamo, quindi, custodire la vita nuova portata nel seme della parola di Cristo che guida alla vera felicità. Come direbbe San Paolo: “prendete la spada dello Spirito, che è la parola di Dio.” (Ef 5,17). Questo è il gesto decisivo: lasciarsi cambiare il cuore dalle parole di vita vera di Gesù. A cosa servirebbe infatti fare anche miracoli, arrivando pure, magari, a cambiare delle pietre in pane, se il nostro cuore poi dovesse rimanere duro come pietra!
 

sabato 24 ottobre 2020

Commento al Vangelo della XXX Domenica del TO/A - 25 ottobre 2020

 

Passione Morte Resurrezione.

Corso accelerato in tre lezioni sull'essenza dell'Amore

 

 


TESTO (Mt 22,34-40)

In quel tempo, i farisei, avendo udito che Gesù aveva chiuso la bocca ai sadducèi, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?».
Gli rispose: «“Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti».


 

COMMENTO
 

Alla lettura di questo passo evangelico emergono almeno due questioni. La prima riguarda il significato della parola “amore”: una delle parole più usate o quanto meno più presente nelle aspettative degli uomini ma con svariate sfumature di significato. Cosa significa sulla bocca di Gesù la parola “amore”? I suoi gesti e l’atto di abbandono alla volontà di Dio Padre per amore di noi uomini, spiegano meglio di ogni altra parafrasi cosa egli intenda. Nel vangelo di Giovanni viene detto: “Prima della festa di Pasqua, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine.” (Gv 13,1). Amore per Gesù è “dono di sé fino in fondo”: “non a tempo”, o “finché tutto va bene”, o “finché ne ho voglia e provo emozioni”. La vita di Gesù è l’amore di Dio fatto uomo, incarnato, storia visibile di un’offerta della propria vita per il bene dell’altro, fino al punto di soffrirne.

La seconda questione che ne deriva è: “Ma una cosa simile, è possibile comandarla?” Se non ci fosse il “prima” di Dio questo sarebbe impossibile, ma noi possiamo e, per la pienezza della nostra vita, “dobbiamo” amare, cioè essere dono per gli altri; in Cristo Gesù, e solo in Lui, Dio ci ha colmato del suo amore gratuito (quella che noi chiamiamo la Grazia di Dio).

In fondo il segreto di una vita riuscita è tanto semplice quanto ignorato e a volte sbeffeggiato; eppure gli uomini che nella storia hanno offerto la propria vita per amore non sono mai stati mezzi uomini, o persone involute. Tra i milioni di aforismi sulla parola “amore” prova a fissare il cuore su ciò che ha fatto Cristo Gesù per te, e su cosa hanno potuto fare in suo nome milioni di uomini e donne, molti dei quali chiamiamo “santi”.

giovedì 15 ottobre 2020

Commento al Vangelo della XXIX Dom TO/A – 18 ottobre 2020

 

  Tutto è di Dio

 

TESTO (Mt 22,15-21)
 

In quel tempo, i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come cogliere in fallo Gesù nei suoi discorsi.
Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?».
Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare».Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

 

COMMENTO 

Se l’immagine e l’iscrizione di una moneta dicono a chi si deve dare tributo, allora è chiaro che tutto, ogni cosa, ogni bene del cielo e della terra, deve essere tributato, nella lode e nel riconoscimento di grazie, a Dio padre dal quale ogni cosa proviene. Il ragionamento di Gesù ci riporta all’origine, alla radice di ciò che siamo: “immagine e somiglianza di Dio”. Ma in fondo la stessa cosa è affermata da San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi:  

nessuno ponga la sua gloria negli uomini, perché tutto è vostro: Paolo, Apollo, Cefa, il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio.” (1 Cor 3,21-23).

Tutto rimarrà oscuro per quegli interlocutori di Gesù: essi che non stavano cercando la verità, ma semplicemente il modo di ingannarlo, per avere di che accusarlo. Gesù, invece, dice la verità perché viene dalla verità e i suoi gesti annunciano che è sempre rivolto al Padre e compie sempre ciò che Lui vuole. A Gesù viene detto: “non guardi in faccia a nessuno”; l’espressione tradotta letteralmente significa: “non guardi l’aspetto degli uomini”. In effetti è proprio così. Gesù non si lascia condizionare da ciò che appare, ma va in profondità. Se dunque la moneta del tributo porta l’immagine di uno che ha autorità politica, a lui andranno resi rispetto e obbedienza. 

Se però gli occhi della ragione illuminati dalla Spirito, nell’aspetto visibile di ogni cosa - anche di una moneta - sanno riconoscere la presenza di un’autorità più grande, quella di Dio, a questa solo serviranno, e a questa solo ricondurranno ogni altra autorità, se necessario per limitarla, qualora non rispetto la dignità che Dio conferisce ad ogni creatura.  

sabato 10 ottobre 2020

Commento al Vangelo della XXVIII Domenica TO/A - 11 ottobre 2020

    

Quali vesti per quale festa?
 

TESTO (Mt 22,1-14)

In quel tempo, Gesù, riprese a parlare con parabole [ai capi dei sacerdoti e ai farisei] e disse:
«Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
Mandò di nuovo altri servi con quest’ordine: Dite agli invitati: “Ecco, ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e gli animali ingrassati sono già uccisi e tutto è pronto; venite alle nozze!”. Ma quelli non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Poi disse ai suoi servi: “La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze”. Usciti per le strade, quei servi radunarono tutti quelli che trovarono, cattivi e buoni, e la sala delle nozze si riempì di commensali.
Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale. Gli disse: “Amico, come mai sei entrato qui senza l’abito nuziale?”. Quello ammutolì. Allora il re ordinò ai servi: “Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”.
Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».



COMMENTO

 
La questione dell’abito nuziale; quanto è importante l’abito giusto secondo le circostanze e soprattutto per un matrimonio. Nella parabola di Gesù c’è una evidente super valutazione dell’abito nuziale come se si trattasse dell’unico requisito veramente necessario per partecipare alla festa. In effetti l’anomalia di questo re fin troppo esigente sul rispetto del “dress-code” del banchetto racchiude ed esprime la densità del messaggio che Gesù vuole trasmettere. L’invito a partecipare alla cena del Signore è il più bell’invito che si possa ricevere, anzi è l’occasione della vita, ma noi facilmente lo disprezziamo o lo prendiamo come una cosa da fare, un obbligo da assolvere; come se si trattasse di un peso da portare anziché la soluzione del nostro destino.

Il re non pone limiti agli inviti per la festa di nozze di suo figlio, i suoi servi hanno dato accesso alla sala del banchetto a “cattivi e buoni”, e il punto nodale da sciogliere resta il reperimento della veste nuziale. Dove si troverà? Chi la confezionerà?
La simbologia della relazione nuziale per raffigurare il rapporto tra Dio e l’uomo è molto ricorrente nella Bibbia. Il profeta Isaia parla del Signore come di colui che ci riveste “delle vesti di salvezza… come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli” (Is 9,10). E alla fine del libro dell’Apocalisse, nella visione della Gerusalemme del cielo l’angelo proclama: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!» (Ap 19,9). E noi sappiamo che proprio Gesù è l’agnello, lo sposo per il quale il Padre – il re della parabola - prepara la festa. Sempre nell’Apocalisse viene annunciato che la sposa, la chiesa, è pronta perché ha ricevuto “una veste di lino splendente”; la Chiesa è la moltitudine di tutti coloro che sono “avvolti in vesti candide” perché hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7,9.14). Ecco chi ci dona la veste nuziale, o meglio chi trasforma le nostre vesti di peccato in vesti candide di salvezza: proprio l’amore di Cristo-agnello donato per amore di noi.

Ma noi, gli invitati, facciamo fatica a capire l’immenso dono di una salvezza gratuita, eterna, definitivamente felice. Questo è il nostro più grande e fondamentale peccato: mancare la più bella occasione della vita per accontentarsi di gioie da poco, e di soddisfazioni di cortissimo respiro.

venerdì 2 ottobre 2020

Commento al Vangelo della XXVII Domenica del TO/a - 4 ottobre 2020

 

La via dell’umiltà che ci fa eredi


TESTO
(Mt 21,33-43)

 
In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo:
«Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo, che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano.
Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo.
Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero.
Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?».
Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».
E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:
“La pietra che i costruttori hanno scartato
è diventata la pietra d’angolo;
questo è stato fatto dal Signore
ed è una meraviglia ai nostri occhi”?
Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti».


COMMENTO

 

Cogliamo la grazia di leggere e ascoltare questo brano di vangelo proprio nel giorno di San Francesco di Assisi. La parabola dei contadini omicidi riflette la preoccupazione di Gesù per la forma più grave e pericolosa di furto, cioè l’appropriazione del “diritto” ad entrare nel regno dei cieli e, peggio ancora, del diritto ad escluderne altri. 

Gesù non a caso rivolse le parole appena ascoltate esattamente ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo, i più titolati tra gli ebrei di quel tempo ad essere definiti giusti. Ma la loro presunzione era appunto una ricchezza ben più pericolosa di quella costituita da beni materiali, tanto è vero che Gesù nelle Beatitudini dice: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Cioè l’eredità del Regno di Dio, della vita eterna, non spetta a chi pretende di ottenerla con una pretesa giustizia derivante dall’osservanza della legge, ma a chi l’accoglie dalle mani e dal cuore del figlio di Dio, diventandogli conforme nello spirito e quindi nelle scelte concrete. Ed è così che San Francesco nel 6° capitolo della regola bollata scrive: “I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. […] Questa è, fratelli miei carissimi, l’eccellenza dell’altissima povertà, che vi costituisce eredi e re del regno dei cieli, facendovi poveri di cose e ricchi di virtù”.

L’eredità del regno dei cieli non è il frutto di una conquista, come pensavano i contadini della parabola, ma piuttosto l’esito dell’umile accoglienza di una Grazia che ci è stata data in un terreno speciale: l’umanità di Gesù di Nazaret. Questo è lo scandalo che confonde il mondo: l’umanità di Cristo, l’umanità del suo corpo storico che è la Chiesa. Ma fu proprio per l’accoglienza nel proprio vissuto dell’immenso tesoro dell’umanità e della povertà del Figlio di Dio-Gesù, che San Francesco ritrovò la via del Cielo. Buon cammino a ciascuno di voi.

sabato 26 settembre 2020

Commento al Vangelo della XXVI Domenica del TO/A - 27 settembre 2020

 

 Connessione interrotta col cuore
 

 

TESTO (Mt 21,28-32)
 

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli»
 

COMMENTO

Sembra di ascoltare in sottofondo la parabola dei due figli del padre misericordioso (cf Lc 15), dei quali il gaudente ritrova poi la via del pentimento, e lo zelante dimostra di avere un cuore totalmente chiuso.
Cosa serve al secondo figlio dire “Si” se in quel mono-sillabo non c’è il cuore, un’intenzione sincera, in definitiva non c’è la vita? Il primo figlio invece inizia forse a compiere la volontà del padre proprio iniziando dalla cosa più necessaria: la sincerità, la verità su di sé: “Non ho voglia!”  
La parabola sintetizza effettivamente una situazione storica vissuta da Gesù. Da una parte vi erano i destinatari della promessa di Dio, gli israeliti, troppo spesso arroccati nella presunzione di essere giusti e salvi per diritto acquisito, e per un’osservanza formale della legge. Soprattutto il gruppo dei farisei, per essere ancor più sicuri di conseguire la salvezza di Dio, avevano sviluppato una quantità ancor più numerosa di prescrizioni. Ma il loro cuore sembrava così lontano dai richiami di Dio che nelle parole di Gesù chiedeva “misericordia e non sacrificio”!  
Dall’altra, vicino a Gesù, c’erano i peccatori pubblici (prostitute ed esattori delle imposte), i primi a dover essere esclusi dalle promesse di Israele, ma che probabilmente erano in profondo ascolto della loro coscienza, di quella coscienza che, a qualsiasi latitudine del mondo, sempre richiama l’uomo alla via del Bene e della Verità.
Chi ascolta questo brano di Vangelo dovrebbe per questo convertirsi a Cristo? Non necessariamente, direi. Ma una cosa la potrebbe fare subito: mettersi in ascolto della propria coscienza e domandarsi se la sua vita corrisponde a una ricerca sincera del Bene e della giustizia.
Ai cristiani in ascolto, in particolare, però ricordo una provocazione di Don Tonino Bello, Vescovo di Molfetta scomparso nel 1993: “Temo – diceva – che sei noi cristiani fossimo accusati di essere appunto discepoli di Cristo, potremmo essere tutti assolti … per insufficienza di prove!”.


venerdì 11 settembre 2020

Commento al Vangelo della XXIV Domenica TO/A - 13 settembre 2020


Non per forza, ma solo per amore!
 

TESTO (Mt 18,21-35)
In quel tempo, Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto.
Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».


 

COMMENTO
 

Tre aspetti da sottolineare:
Il primo: Nella parabola raccontata da Gesù c’è un padrone che rimette un debito enorme, circa 60 milione di volte quella che poteva essere la paga giornaliera di un bracciante. Da notare che egli non pone condizioni al suo gesto. Esaudisce la preghiera perché è implorato, e basta.
 

Secondo aspetto: il servo, che poi viene detto malvagio, esige di essere rimborsato di un debito di cento denari (solo 100 volte la paga giornaliera di un bracciante!) e questo non per riuscire a pagare il suo già cancellato, ma solo per la durezza del suo cuore. E qui c’è il salto logico della parabola inventata da Gesù. Può un creditore pentirsi di avere condonato un debito, e tornare ad esigerlo? Normalmente no. Qui entriamo nella logica della pietà di Dio Padre. “Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?” Non siamo più sul piano di un obbligo giuridico, ma di un obbligo di riconoscenza, di un obbligo del cuore. Ecco perché la durezza del cuore impedisce il “godimento” di una Grazia già elargita, quanto al donatore.
 

C’è inoltre un terzo aspetto, altrettanto decisivo. Il servo duro di cuore viene consegnato agli aguzzini “finché non avesse restituito tutto il dovuto”. Chi potrà aiutare questo servo malvagio a rifondere una cifra così esorbitante, aggravata dalla colpa dell’ingratitudine? Fuor di metafora, anche per lui non si estinguerà la possibilità di un intervento da parte dell’unico salvatore, Cristo Gesù. Questi è l’unico che ha la capacità di rimettere per noi e al posto nostro, anche la colpa più grave, apparentemente (per gli uomini) insanabile.

venerdì 4 settembre 2020

Commento al Vangelo della XXIII Domenica del TO/A - 6 settembre 2020


Il potere della comunione


 

TESTO (Mt 18,15-20)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Se il tuo fratello commetterà una colpa contro di te, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ascolterà, prendi ancora con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolta sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà costoro, dillo alla comunità; e se non ascolterà neanche la comunità, sia per te come il pagano e il pubblicano.
 

In verità io vi dico: tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo.
In verità io vi dico ancora: se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro»

 

COMMENTO
 

Penso che sia uno degli aspetti più sottovalutati e sottostimati della spiritualità cristiana: la comunione ecclesiale. Intendiamoci bene: molte associazioni e movimenti si prefiggono e scelgono come motto la comunione, l’Unità, la fraternità, ma di solito questi bei principi vengono vissuti perlopiù all’interno del proprio gruppo, e si fa molta fatica ad essere e a sentirsi Chiesa nella Chiesa. In nome del rispetto dei propri carismi, si perde di vista il carisma principale: la comunione ecclesiale.
 

Eppure Gesù vede nella dinamica comunitaria la soluzione degli inevitabili contrasti tra i fratelli, ma anche la forza per custodire la presenza del Signore. Il fatto che in cielo sarà legato e sciolto ciò che i discepoli avranno legato e sciolto in terra non ha solo un rilievo, per così dire giuridico-canonico, ma anche esistenziale.
Gesù lo ripete ancora: “se due di voi sulla terra si metteranno d’accordo per chiedere qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli gliela concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”.
 

La comunione ecclesiale, la comunione dei discepoli rende visibile il corpo spirituale (mistico) di Cristo e in lui tutto diviene possibile e il Padre che è nei Cieli, sentendo la voce del suo Figlio salire dalle sue membra, molto spesso sofferenti, non potrà non ascoltare. A suo modo, a suo tempo, certo, ma per il nostro più grande vero bene.
 

Quanto è difficile la comunione dei cuori! Quanto è più facile, quando un fratello commette una colpa contro di noi, andare a raccontarlo alla sagrestana della Parrocchia, e quindi al mondo intero! Invece Gesù ci chiede di custodire il fratello, di correggerlo, sì, ma nello stesso tempo di preservarlo. E se anche questo fratello dovesse continuare a sbagliare, il fatto di trattarlo come pagano e pubblicano ci rimanderà al modo con cui Gesù stesso trattava i pagani e i pubblicani. Oggetto della sua tenerezza Gesù, non disdegnava di frequentarli, di andare alla loro mensa, per cercare di riportare nel gregge una pecorella perduta, anche rischiando di lasciare le altre 99 senza custodia.

domenica 23 agosto 2020

Commento al Vangelo della XXII domenica del TO/A – 30 agosto 2020


Servire ( o servirsi di ) Cristo


Testo (Mt 16,21-27)

In quel tempo, Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!».
Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà.
Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita?
Perché il Figlio dell’uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

Commento
 

Pietro intuisce ma è ancora ben lontano dalla piena comprensione della realtà divino-umana di Gesù, di quello che noi chiamiamo il mistero di Cristo: l’amore personale di Dio che si rivela nella natura umana. Un amore che accetta anche la sfida della morte pur di non smentire sé stesso e il suo carattere di misericordia infinita. Pietro non è il solo: anche i fratelli Giovanni e Giacomo chiederanno di sedere uno alla destra e uno alla sinistra del Maestro, una volta stabilito pienamente il suo regno. Evidentemente anche loro non sapevano quello che stavano chiedendo. La loro mentalità è ancora quella del mondo, dell’affermazione di sé.
 

Solo lo Spirito Santo, effuso sui dodici nel giorno della Pentecoste, potrà guidarli alla verità tutta intera (cfr Gv 16,13: “Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future”).
Perché la vera intimità con Cristo, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, è quella che avviene per l’inabitazione del suo spirito nei nostri cuori.
 

Gesù fonda il suo Regno su un atteggiamento opposto a quella di Pietro e dei discepoli: “il dono di sé”. Pietro vivrà veramente la sua vocazione di pietra solo quando, una volta ravveduto, legherà la sua vita alla sorte di Cristo, “pietra scartata dai costruttori ma divenuta testata d’angolo” del nuovo tempio di Dio, quello vivente, costituito da tutti i credenti, anch’essi pietre vive (cf 1 Pt 2,5).
Non si entra nel regno di Dio al di fuori della porta della Pasqua, cioè della passione morte e resurrezione di Cristo.
 

Troppo facilmente i cristiani cercano di arrivare alla Domenica della resurrezione (il giorno della Gloria) cercando di evitare il venerdì santo, il giorno della passione, del dono di sé. O peggio, troppo facilmente degli pseudo cristiani, anziché servire il Regno di Cristo, si servono di Cristo, dell’etichetta cristiana per affermare sé stessi o stabilire ideologie partitiche o nazionaliste.

venerdì 21 agosto 2020

Commento al Vangelo della XXI Domenica del TO/A - 23 agosto 2020

 

 Eccentrici per amore

 

TESTO (Mt 16,13-20)

In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».
Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».
Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo.

 

COMMENTO

Il dialogo tra Gesù e i discepoli, e con Pietro in particolare, sembra giocarsi sulla questione della relazione filiale, o della paternità a cui riferiamo la nostra vita.
Gesù per primo parla di sé come “il Figlio dell’uomo”, sia per rivendicare la sua piena natura umana, sia per richiamarsi a quel figlio dell’uomo di cui parla il libro del profeta Daniele (cf cap 13,7) a cui sarà rimesso il regno di Dio. Ma subito dopo Gesù parla anche di un “Padre mio che è nei cieli”, a cui attribuisce l’esclusivo merito di aver rivelato a Simone, figlio di Giona, di essere il Cristo, il figlio di Dio. 

Si può dedurre che il nodo della questione per capire l’identità e la missione di Gesù, è collocarsi nella scia della relazione filiale che Gesù ha con Dio Padre.
Gesù ha detto anche che nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il figlio vorrà rivelarlo (Mt 11,25 ss) e che “chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9). Simone Pietro, nella prolungata compagnia e amicizia di Gesù entra gradualmente nella comprensione dell’Altro, di quell’Altro, Dio Padre, che Gesù è venuto a rivelare. Gesù non è venuto ad affermare e rivelare sé stesso. Gesù rimanda ad altro, a quella presenza di Dio Padre che nella comunione dello Spirito, traspare e si comunica in Lui.

 Simone dimostrerà di non aver ancora capito quale tipo di regno il suo Maestro è venuto a realizzare e nel momento cruciale lo rinnegherà; ma ciò che salva Simone e gli “merita” il ruolo di Pietra e quindi di riferimento dei fratelli nella fede, è che rimarrà sempre ancorato a questa relazione di abbandono e di fiducia in Gesù, anche quando capirà di aver tradito: non la carne né il sangue, non il suo essere figlio di Giona, ma l’aver colto e accolto la luce di un padre infinitamente misericordioso nella persona di Gesù.

Anche i cristiani sono chiamati alla medesima trasparenza, dello sguardo e della vita. Il vero discepolo di Cristo, per la luce dello Spirito, sa cogliere la presenza discreta e amorevole del Signore in ogni situazione e in ogni persona; dall’altra il discepolo di Cristo, proprio perché vive in una relazione filiale, rimanda sempre ad altro da sé, i suoi gesti e le sue parole non avranno mai il sapore dell’egocentrismo e del protagonismo. Questa è la vera paternità spirituale: orientare gli uomini di questo mondo, per la potenza della Parola e dello Spirito di Gesù, ad una relazione di filiale fiducia in Dio Padre.


venerdì 14 agosto 2020

Commento al Vangelo della XX Domenica del TO/A - 16 agosto 2020

 
 

Nella fede in Gesù anche i cagnolini diventano figli

 
 

TESTO (Mt 15,21-28)

 
In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola.
 Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele».
Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni».
Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell’istante sua figlia fu guarita
 

 

COMMENTO
 

Sebbene Gesù dichiari di essere stato mandato solo alle pecore perdute della casa di Israele, ecco un gesto di grande compassione da parte sua per una donna cananèa, cioè non israelita. Cosa è successo nel frattempo, nel corso di questo breve dialogo?
 

È successo che mentre i discepoli volevano da Gesù un miracolo in quattro e quattr’otto, un miracolo per così dire “prèt-à-porter”, tanto per scrollarsi di dosso la donna, visto che li inseguiva gridandogli dietro, Gesù non tratta la donna come un problema da risolvere.
 

Gesù conduce la donna ad esprimere una fede profonda, sincera, di totale abbandono. Assomiglia questa donna a quel figlio piccolo della parabola del “padre misericordioso” (cf Lc 15) in cui il secondogenito torna a casa, dopo aver tutto sprecato, e cammin facendo si prepara il discorso per chiedere di essere riammesso tra i servi del padre. Ma quel padre lo riammette tra i suoi figli e fa festa per lui. Qui ugualmente la donna non viene trattata da cagnolino, ma da figlia, perché è lei che ha tirato fuori dal suo cuore una fede degna di un figlio che si abbandona tra le braccia di un papà. Una figlia, anch’ella pecora perduta della casa d’Israele, perché anch’ella chiamata alla salvezza di Cristo destinata a tutti i popoli.
 

Ecco cosa è successo dunque, in questo dialogo. Una straniera, per la sua fede espressa e vissuta con totalità e abbandono, entra a far parte del nuovo e del vero Israele, cioè il popolo che ha la stessa fede di Abramo, e non tanto la stessa appartenenza etnica. Abramo che fu esaudito, appunto, per la sua fede.




domenica 2 agosto 2020

Commento al Vangelo della XIX Domenica del Tempo Ordinario/A - 9 agosto 2020

 

Tutti a bordo!

 

Testo (Mt 14,22-33)

 [Dopo che la folla ebbe mangiato], subito Gesù costrinse i discepoli a salire sulla barca e a precederlo sull’altra riva, finché non avesse congedato la folla. Congedata la folla, salì sul monte, in disparte, a pregare. Venuta la sera, egli se ne stava lassù, da solo.

La barca intanto distava già molte miglia da terra ed era agitata dalle onde: il vento infatti era contrario. Sul finire della notte egli andò verso di loro camminando sul mare. Vedendolo camminare sul mare, i discepoli furono sconvolti e dissero: «È un fantasma!» e gridarono dalla paura. Ma subito Gesù parlò loro dicendo: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!».

Pietro allora gli rispose: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque». Ed egli disse: «Vieni!». Pietro scese dalla barca, si mise a camminare sulle acque e andò verso Gesù. Ma, vedendo che il vento era forte, s’impaurì e, cominciando ad affondare, gridò: «Signore, salvami!». E subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?».

Appena saliti sulla barca, il vento cessò. Quelli che erano sulla barca si prostrarono davanti a lui, dicendo: «Davvero tu sei Figlio di Dio!».

 

 Commento

Quante volte anche noi abbiamo l’impressione che il vento sia contrario, che tutto e tutti vengano in direzione opposta alla nostra buona sorte, ai nostri progetti, o alle nostre più che legittime aspirazioni di bene. Sempre qualcosa che ci taglia la strada o il diavolo, qualcuno direbbe, che ci mette lo zampino. 

La barca dei discepoli è sempre stata assunta come immagine della Chiesa che solca i flutti della storia, e non a caso i settori dei nostri edifici di culto vengono anche chiamati “navate”. I discepoli di Cristo sperimentano la fatica di procedere facendo a meno della presenza del maestro che invece di remare con i suoi amici, rimane su un’altura immerso nella preghiera notturna. È la Chiesa di tutti i tempi che, anche a livello collettivo e non solo di singoli fedeli, potrebbe sempre sembrare prossima al naufragio. Ma anche la Chiesa che nella sua vita ordinaria sembra essere un equipaggio molto ben organizzato, con ruoli ben definiti, ma senza un capitano a bordo.

Il maestro è fisicamente assente, ma in realtà è sul monte a pregare. Gesù Signore, anche ora, è sempre vivo per intercedere a nostro favore, come ci ricorda la lettera agli Ebrei. Lui prega sempre il Padre per noi, con noi e in noi.

Sta a ciascuno di noi afferrare quella mano tesa che sorregge quando la paura fa affondare. Soprattutto sta a ciascuno di noi accogliere la presenza del Signore nella propria navigazione mettendosi in ascolto della sua Parola. Il filosofo ottocentesco Soren Kirkegaard una volta ebbe a dire: “La nave è ormai in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono del comandante non è più la rotta ma ciò che mangeremo domani”. Forse, mi permetto di aggiungere, visti i tempi, è ora di ridare il megafono al Capitano!