Commento al vangelo della domenica delle Palme – 24 marzo 2024
Dal vangelo di Marco (Data la lunghezza del testo 14,1-15,47, si è scelto di limitare il commento ai versetti 15,33-39)
[…] Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
Commento
Il racconto della passione e morte di Gesù di questa domenica (delle Palme) si completerà con l’annuncio della risurrezione di domenica prossima. Gli ultimi capitoli della narrazione di Marco, primo a scrivere tra i quattro evangelisti, costituiscono in realtà il cuore e il fine di tutta l’opera: fine che era stato già sinteticamente annunciato fin dal primo versetto: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio.” (Mc 1,1).
Saranno le parole del centurione sotto la croce a confermare questo lieto annuncio: le parole di un uomo pagano trovatosi lì per adempiere le sue mansioni di carnefice e del quale si dice che “avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!»” (Mc 15,39). Doveva esserci qualcosa di straordinariamente convincente nel modo di spirare di Gesù che in un ultimo grido così si rivolse al Padre: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”
Sono le ultime parole che secondo San Marco Gesù ha proferito prima di morire, esprimendo in esse la domanda di senso di tutta l’umanità, ma anche prendendo a prestito i versetti del salmo 22 (21) che egli ovviamente, comi ogni ebreo praticante, doveva conoscere quasi a memoria e che continuano con delle parole di fiducia (“in te confidarono i nostri padri, confidarono e tu li liberasti” (Sal 22,5) ma che le morte gli impedì di proferire. Sono le parole di chi umanamente fatica ad accettare la sua sorte, che non vede la pienezza di una vicenda dolorosa, come non doveva vederla, in quegli istanti, neppure Gesù.
Dunque, Gesù è morto rivolgendosi al Padre, reclamando da lui il senso e il fine di quell’immenso dolore. Un Gesù tremendamente umano, così umano perché dall’inizio alla fine del cammino della sua vita non ha mai interrotto la sua relazione filiale con il Padre. Ecco il modo che affascinò il soldato romano: la relazione mai interrotta con Colui che lo aveva inviato nel mondo a radunare i figli dispersi, cioè tutti gli uomini orfani, a causa del peccato, della paternità di Dio. Il modo della fiducia, della comunione con Dio, sempre e comunque.
In quel grido ci siamo tutti. O forse è più significativo sottolineare che in ogni nostro grido c’è anche il suo: un grido che reclama la conoscenza del fine di bene di tante esperienze crocifisse, che reclama di sapere, di capire, di comprendere. A queste grida che salgono a Dio continuamente in tutti i tempi e da tutta la terra, come in questi giorni dall’Ucraina o dalla striscia di Gaza, o da tanti ospedali e da tante case di reclusione, Gesù risponde: “abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16,33).