La profezia di una vita
TESTO
Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva esaltato in lei la sua misericordia, e si rallegravano con lei.
All'ottavo giorno vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo col nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta, e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. In quel medesimo istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. Coloro che le udivano, le serbavano in cuor loro: «Che sarà mai questo bambino?» si dicevano. Davvero la mano del Signore stava con lui.
Il fanciullo cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele.
COMMENTO
La vita di Giovanni il “battezzatore” non viene solo dal grembo di Elisabetta e dal seme di Zaccaria, la sua esistenza non è solo legata al codice genetico di una famiglia, di una stirpe e di una stirpe sacerdotale per altro. Il dono della sua esistenza viene soprattutto dall’Alto: Elisabetta se ne rende conto e obbedendo a quanto aveva detto l’angelo Gabriele a Zaccaria suo marito («Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni” - Lc 1,13), decide di non chiamarlo con uno dei nomi del loro clan. Anche il nome doveva essere segno che in quella creatura c’era qualcosa di più, che veniva direttamente dalla mano di Dio. La lingua di Zaccaria si scioglie ugualmente solo quando questi riconosce che in quella nuova esperienza umana si celava un’esperienza divina, un’esperienza della presenza di Dio nell’umanità. La vita stessa del Battista è profezia, è una parola cioè che annuncia la salvezza, un segno vivente delle impossibili possibilità di Dio. Quello che Giovanni ha fatto in concreto potrebbe non sembrare grande cosa; l’evangelista Luca ci dice che Giovanni “visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”, ma quello che conta è che lui è stato ciò che il Signore gli ha chiesto di essere e ha fatto ciò che il Signore gli ha chiesto di fare.
Non dobbiamo avere mai paura di una vita apparentemente insignificante e che sembra essere il deserto di ogni senso e di ogni possibile gratificazione, perché la vita ha un senso per se stessa, perché è sempre un dono che viene dall’Alto e perché è sempre una profezia dalla parte di Dio.
Ad ogni vita che viene concepita ognuno dovrebbe porsi la stessa domanda della gente di quel tempo riguardo Giovanni Battista: «Che sarà mai questo bambino?» In ogni uomo c’è una luce venuta a illuminare, una voce venuta a profetizzare, un nuovo raggio della stessa e medesima luce di Pace che irradia il mondo.
Proprio riguardo alle speranze di pace di questo ricco-povero continente africano vorrei fare eco alle parole della Beata Madre Teresa di Calcutta che nel corso di una trasmissione televisiva, rispondendo a una domanda sulla pace nel mondo, disse: “finché qualcuno ammazzerà un bimbo nel proprio grembo, non ci sono speranze di pace!”
fra Damiano Angelucci da Fano ( OFM Capp): frate itinerante
domenica 24 giugno 2012
domenica 17 giugno 2012
Commento al Vangelo XI Dom TO Anno B, 17 giugno 2012
A BUON INTENDITORE POCHE PAROLE
TESTO (Mc 4,26-34)
Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra».
Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.
COMMENTO
San Francesco d’Assisi verso la fine dei suoi anni disse un giorno: “fratelli, cominciamo a fare qualcosa che fino ad ora abbiamo fatto poca cosa”. La sua consapevolezza di aver fatto ben poco per il Regno di Dio doveva essere più che sincera e doveva derivare dalla chiara percezione dell’azione della mano del Signore in tutto quello che pur tuttavia aveva realizzato. L’apertura alla Grazia di Dio gli permise di vedere ben al di là di un orizzonte umano e di constatare che quel seme divino gettato nella terra del suo cuore aveva avuto una crescita imprevedibile, smisurata ( senza alcun misura con i suoi meriti umani ), e non paragonabile alla piccolezza della sua risposta umana, e che veramente lui era stato quasi solo spettatore dell’Opera di Dio.
Solo i santi possono capire e vedere con chiarezza tutto ciò che il Signore compie nella loro vita e ai loro occhi la collaborazione offerta al Signore risulterà sempre ben poca cosa.
Oltre a questo, oggettivamente il Signore opera con ancor più grandezza laddove c’è un’anima disposta a collaborare con Lui. Non si tratta dunque solo di una più grande chiaroveggenza soggettiva ma anche di una più grande abbondanza di Grazia che si riversa nei cuori di coloro che accettano la sfida della croce, di coloro che agli occhi degli uomini sembrano aver fatto prodezze e che, senza falsa umiltà, si sentono invece come … ‘un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa’.
Vorrei dar lode al Signore perché quel seme ha fatto frutto anche in questo angolino del Golfo di Guinea, attraverso l’opera di quattro confratelli cappuccini delle Marche. Nel mese di ottobre di 25 anni fra Vittore Fiorini, fra Giansante Lenti, fra Mario Capriotti e fra Vincenzo Febi arrivarono qui in Bénin e si installarono a Cotonou; iniziarono a vivere la loro esperienza di vita francescana cappuccina. I primi giovani arrivarono, arrivarono altri missionari, si aprirono altre comunità come questa di Ouidah da dove sto scrivendo, i frati sono diventati una quarantina e fra i rami di questa pianta tanti ‘piccoli uccelli del cielo’ si sono riparati per trovare un tetto, dell’affetto o del semplice sostegno spirituale. Due mila anni fa’ il seme del verbo di Dio è stato gettato nella terra della nostra natura umana … e non ha ancora finito di portare frutto, ovunque.
TESTO (Mc 4,26-34)
Diceva: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra; ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra».
Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere. Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.
COMMENTO
San Francesco d’Assisi verso la fine dei suoi anni disse un giorno: “fratelli, cominciamo a fare qualcosa che fino ad ora abbiamo fatto poca cosa”. La sua consapevolezza di aver fatto ben poco per il Regno di Dio doveva essere più che sincera e doveva derivare dalla chiara percezione dell’azione della mano del Signore in tutto quello che pur tuttavia aveva realizzato. L’apertura alla Grazia di Dio gli permise di vedere ben al di là di un orizzonte umano e di constatare che quel seme divino gettato nella terra del suo cuore aveva avuto una crescita imprevedibile, smisurata ( senza alcun misura con i suoi meriti umani ), e non paragonabile alla piccolezza della sua risposta umana, e che veramente lui era stato quasi solo spettatore dell’Opera di Dio.
Solo i santi possono capire e vedere con chiarezza tutto ciò che il Signore compie nella loro vita e ai loro occhi la collaborazione offerta al Signore risulterà sempre ben poca cosa.
Oltre a questo, oggettivamente il Signore opera con ancor più grandezza laddove c’è un’anima disposta a collaborare con Lui. Non si tratta dunque solo di una più grande chiaroveggenza soggettiva ma anche di una più grande abbondanza di Grazia che si riversa nei cuori di coloro che accettano la sfida della croce, di coloro che agli occhi degli uomini sembrano aver fatto prodezze e che, senza falsa umiltà, si sentono invece come … ‘un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa’.
Vorrei dar lode al Signore perché quel seme ha fatto frutto anche in questo angolino del Golfo di Guinea, attraverso l’opera di quattro confratelli cappuccini delle Marche. Nel mese di ottobre di 25 anni fra Vittore Fiorini, fra Giansante Lenti, fra Mario Capriotti e fra Vincenzo Febi arrivarono qui in Bénin e si installarono a Cotonou; iniziarono a vivere la loro esperienza di vita francescana cappuccina. I primi giovani arrivarono, arrivarono altri missionari, si aprirono altre comunità come questa di Ouidah da dove sto scrivendo, i frati sono diventati una quarantina e fra i rami di questa pianta tanti ‘piccoli uccelli del cielo’ si sono riparati per trovare un tetto, dell’affetto o del semplice sostegno spirituale. Due mila anni fa’ il seme del verbo di Dio è stato gettato nella terra della nostra natura umana … e non ha ancora finito di portare frutto, ovunque.
sabato 9 giugno 2012
Commento al Vangelo Festa del Corpus Domini: 10 giugno 2012
«Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (Gv 6,52).
TESTO (Mc 14,12-16. 22-25)
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua. […]
Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio».
COMMENTO
Recentemente ho rincontrato una ragazza di Cotonou che già conoscevo e che mi ha comunicato con entusiasmo la nascita del suo secondo figlio, non soffermandosi né sull’identità del papà del pargolo, né sulla propria intenzione di sposarsi. Per molte ragazze come questa è importante essere mamma, mentre essere moglie sembra venire al secondo posto e potrebbe anche non verificarsi: tutto ciò è sintomo di una vita donata a metà, al di là delle buone intenzioni soggettive, un corpo donato alla maternità ma non alla coniugalità.
Al contrario per molti ragazzi è importante vivere e esercitare la loro sessualità attraverso atti coniugali ma senza alcuna preoccupazione di responsabilità paterna: siamo al caso contrario, cioè una coniugalità priva di paternità .
Gesù mostra invece un atto di donazione totale della sua corporeità che indica il senso profondo dell’umanità, della nostra intima natura creata per donarsi agli altri.
Un corpo donato e del sangue versato, una vita offerta per aprirci una breccia verso la Gerusalemme celeste e un esempio lasciato per insegnarci a costruire la Gerusalemme terrestre.
Cristo si è offerto una volta per tutte, lui il Giusto per tutti noi peccatori (cfr 1Pt 3,18) e ha riconciliato l’umanità a Dio Padre, ma il suo esempio deve essere come la pietra angolare della nostra dimora terrena. Donare un corpo significa offrire la propria vita, amare fino in fondo, dare senza condizioni, e tutto questo produce armonia, pace, relazioni stabili e durevoli. Che la festa del Corpus Domini (il corpo del Signore) sia anche la memoria di un corpo che abbiamo ricevuto per essere luogo e segno del dono di tutta una vita.
TESTO (Mc 14,12-16. 22-25)
Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d'acqua; seguitelo e là dove entrerà dite al padrone di casa: Il Maestro dice: Dov'è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta; là preparate per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono per la Pasqua. […]
Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: «Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti. In verità vi dico che io non berrò più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo nel regno di Dio».
COMMENTO
Recentemente ho rincontrato una ragazza di Cotonou che già conoscevo e che mi ha comunicato con entusiasmo la nascita del suo secondo figlio, non soffermandosi né sull’identità del papà del pargolo, né sulla propria intenzione di sposarsi. Per molte ragazze come questa è importante essere mamma, mentre essere moglie sembra venire al secondo posto e potrebbe anche non verificarsi: tutto ciò è sintomo di una vita donata a metà, al di là delle buone intenzioni soggettive, un corpo donato alla maternità ma non alla coniugalità.
Al contrario per molti ragazzi è importante vivere e esercitare la loro sessualità attraverso atti coniugali ma senza alcuna preoccupazione di responsabilità paterna: siamo al caso contrario, cioè una coniugalità priva di paternità .
Gesù mostra invece un atto di donazione totale della sua corporeità che indica il senso profondo dell’umanità, della nostra intima natura creata per donarsi agli altri.
Un corpo donato e del sangue versato, una vita offerta per aprirci una breccia verso la Gerusalemme celeste e un esempio lasciato per insegnarci a costruire la Gerusalemme terrestre.
Cristo si è offerto una volta per tutte, lui il Giusto per tutti noi peccatori (cfr 1Pt 3,18) e ha riconciliato l’umanità a Dio Padre, ma il suo esempio deve essere come la pietra angolare della nostra dimora terrena. Donare un corpo significa offrire la propria vita, amare fino in fondo, dare senza condizioni, e tutto questo produce armonia, pace, relazioni stabili e durevoli. Che la festa del Corpus Domini (il corpo del Signore) sia anche la memoria di un corpo che abbiamo ricevuto per essere luogo e segno del dono di tutta una vita.
venerdì 1 giugno 2012
Commento Vangelo SS Trinita'. Domenica 3 giugno 2012
SPETTATORI O PROTAGONISTI
TESTO ( Mt 28, 16-20 )
Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato.
Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano.
E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,
insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
COMMENTO
Se il criterio di valutazione dell’efficacia dell’attività missionaria fosse solo in senso liturgico, il battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” , io sarei un missionario ben più scarso di quello che forse sono: in 4 anni di presenza qui in Bénin non ho battezzato che tre persone. Ma quando Gesù usa questa espressione, “battezzare”, vuole andare al di là del senso prettamente sacramentale e spingere i suoi discepoli a fare un’esperienza personale del messaggio ricevuto, accompagnando altri a fare lo stesso, accompagnandoli a “immergersi” in questa esperienza d’amore che è la stessa vita di Gesù. Nella lingua greca-antica usata dagli evangelisti “battezzare” significa appunto “immergere”.
Dunque i discepoli sono invitati ad annunciare la Buona Novella e a immergersi e ad accompagnare tutti i popoli ad immergersi nel nome, cioè nella relazione d’amore che intercorre tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Ecco il punto: non siamo noi che dobbiamo comprendere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma è questa stessa comunione trinitaria che deve com-prendere noi, e noi dobbiamo lasciarci prendere e abbracciare gettandoci tra le braccia di questo “oceano di amore”.
Il mistero di Dio uno e trino non può essere capito dall’esterno, va anzitutto vissuto e solo i mistici potranno balbettare qualcosa di esso.
Un filosofo disse una volta che per capire l’essenza di un fiume non si può restare tutto il tempo appoggiati al corrimano del ponte guardandolo e riguardandolo, ma bisogna piuttosto buttarcisi dentro e cominciare a nuotare in esso. Effettivamente questo è ancor più vero per il mistero di Dio che può essere colto anzitutto da chi lo vive. Ecco perché di fronte al dubbio di alcuni degli undici, “… alcuni però dubitavano”, Gesù esorta a partire, a buttarsi, a investire e a investirsi: “ andate, ammaestrate … ecco io sono con voi fino alla fine del mondo”.
Chi non si butta, chi non ha il coraggio di lanciarsi nella vita e nell’esperienza di Dio, chi non prende ogni giorno la sua croce e non si mette sulle tracce di Gesù, chi non accetta la sfida del sacrificio e della rinuncia implicita in ogni esperienza di amore, difficilmente comprenderà qualcosa del mistero della Trinità e dell’amore che è Dio.
Un ragazzo e una ragazza, e penso alla mia Italia, che si vogliono bene ma che non arrivano a lasciare tutto per donarsi in tutto e per dirsi “Si” per sempre, che continuano a vivere da figli quando tornano a casa e che continuano a vivere da coniugi quando escono insieme o quando coabitano, questi non possono dire di amarsi! ... stanno solo guardando scorrere un fiume di cui non conoscono niente. Siamo alla logica del bunga bunga!
Dei battezzati, e penso alla mia patria adottiva, il Benin, che frequentano la chiesa cattolica ma che all’occasione vanno dal fattucchiere per fare un maleficio a qualcuno, o vanno dal sacerdote voodu per farsi proteggere dagli spiriti maligni, o vanno dal veggente per conoscere il futuro, o vanno dallo stregone per farsi guarire, anche questi non possono dire di lasciarsi com-prendere dal mistero dell’amore trinitario che è Dio! Stanno solo facendo shopping religioso. Siamo alla religione del bingo bongo.
Io vorrei timidamente testimoniare la gioia di buttarsi nella sequela di Gesù, di lasciarsi condurre dalla sua corrente … è vero, si sa come inizia ma non si sa come va a finire, eppure è la gioia; la gioia della totalità, della pienezza, del sapere che sei tutto per Colui che è il Tutto. La gioia non è il piacere, non è l’ebbrezza, ma ti fa andare lontano e ti fa guardare ancora più lontano e più in Alto, e ti riempie la vita.
Alla vigilia del 2 giugno, festa della repubblica italiana, condivido con gli amici internauti la mia preghiera per tutte le vittime del terremoto d’Emilia, e anche per tutti gli sfollati e coloro che sono nel dolore. Che il Signore benedica, protegga e custodisca nell’autentica fede cattolica la nostra Italia … nella quale rientrerò per due mesi di riposo il prossimo 5 luglio.
TESTO ( Mt 28, 16-20 )
Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato.
Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano.
E Gesù, avvicinatosi, disse loro: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.
Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,
insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
COMMENTO
Se il criterio di valutazione dell’efficacia dell’attività missionaria fosse solo in senso liturgico, il battezzare “nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo” , io sarei un missionario ben più scarso di quello che forse sono: in 4 anni di presenza qui in Bénin non ho battezzato che tre persone. Ma quando Gesù usa questa espressione, “battezzare”, vuole andare al di là del senso prettamente sacramentale e spingere i suoi discepoli a fare un’esperienza personale del messaggio ricevuto, accompagnando altri a fare lo stesso, accompagnandoli a “immergersi” in questa esperienza d’amore che è la stessa vita di Gesù. Nella lingua greca-antica usata dagli evangelisti “battezzare” significa appunto “immergere”.
Dunque i discepoli sono invitati ad annunciare la Buona Novella e a immergersi e ad accompagnare tutti i popoli ad immergersi nel nome, cioè nella relazione d’amore che intercorre tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Ecco il punto: non siamo noi che dobbiamo comprendere il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma è questa stessa comunione trinitaria che deve com-prendere noi, e noi dobbiamo lasciarci prendere e abbracciare gettandoci tra le braccia di questo “oceano di amore”.
Il mistero di Dio uno e trino non può essere capito dall’esterno, va anzitutto vissuto e solo i mistici potranno balbettare qualcosa di esso.
Un filosofo disse una volta che per capire l’essenza di un fiume non si può restare tutto il tempo appoggiati al corrimano del ponte guardandolo e riguardandolo, ma bisogna piuttosto buttarcisi dentro e cominciare a nuotare in esso. Effettivamente questo è ancor più vero per il mistero di Dio che può essere colto anzitutto da chi lo vive. Ecco perché di fronte al dubbio di alcuni degli undici, “… alcuni però dubitavano”, Gesù esorta a partire, a buttarsi, a investire e a investirsi: “ andate, ammaestrate … ecco io sono con voi fino alla fine del mondo”.
Chi non si butta, chi non ha il coraggio di lanciarsi nella vita e nell’esperienza di Dio, chi non prende ogni giorno la sua croce e non si mette sulle tracce di Gesù, chi non accetta la sfida del sacrificio e della rinuncia implicita in ogni esperienza di amore, difficilmente comprenderà qualcosa del mistero della Trinità e dell’amore che è Dio.
Un ragazzo e una ragazza, e penso alla mia Italia, che si vogliono bene ma che non arrivano a lasciare tutto per donarsi in tutto e per dirsi “Si” per sempre, che continuano a vivere da figli quando tornano a casa e che continuano a vivere da coniugi quando escono insieme o quando coabitano, questi non possono dire di amarsi! ... stanno solo guardando scorrere un fiume di cui non conoscono niente. Siamo alla logica del bunga bunga!
Dei battezzati, e penso alla mia patria adottiva, il Benin, che frequentano la chiesa cattolica ma che all’occasione vanno dal fattucchiere per fare un maleficio a qualcuno, o vanno dal sacerdote voodu per farsi proteggere dagli spiriti maligni, o vanno dal veggente per conoscere il futuro, o vanno dallo stregone per farsi guarire, anche questi non possono dire di lasciarsi com-prendere dal mistero dell’amore trinitario che è Dio! Stanno solo facendo shopping religioso. Siamo alla religione del bingo bongo.
Io vorrei timidamente testimoniare la gioia di buttarsi nella sequela di Gesù, di lasciarsi condurre dalla sua corrente … è vero, si sa come inizia ma non si sa come va a finire, eppure è la gioia; la gioia della totalità, della pienezza, del sapere che sei tutto per Colui che è il Tutto. La gioia non è il piacere, non è l’ebbrezza, ma ti fa andare lontano e ti fa guardare ancora più lontano e più in Alto, e ti riempie la vita.
Alla vigilia del 2 giugno, festa della repubblica italiana, condivido con gli amici internauti la mia preghiera per tutte le vittime del terremoto d’Emilia, e anche per tutti gli sfollati e coloro che sono nel dolore. Che il Signore benedica, protegga e custodisca nell’autentica fede cattolica la nostra Italia … nella quale rientrerò per due mesi di riposo il prossimo 5 luglio.
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