sabato 23 novembre 2024

Il regno di ‘Lassù’

 

 Solennità di Cristo Re dell’universo/B – 24 novembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Giovanni (18,33-37)

 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
 

Commento

 Abbiamo appena ascoltato l’unico passo di tutti i quattro vangeli in cui Gesù dice espressamente di essere “re”. Alla domanda di Pilato: “Dunque tu sei re?” Gesù risponde: “Tu lo dici, Io sono re”. Tuttavia, Gesù aveva premesso che il suo regno non è di questo mondo, non è di quaggiù; anzi nel capitolo 8 dello stesso vangelo di Giovanni Gesù dice ai farisei: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù” (Gv 8,23). Capiamo che la regalità di Gesù non è quindi affermazione di potere secondo la logica del mondo, nel senso di esercizio di dominio e di forza sugli altri, ma – al contrario – affermazione della potenza che gli viene da ‘lassù’ dal Padre. E questa potenza, questo potere consiste nella capacità di offrire la vita e di riprenderla di nuovo, secondo il comando ricevuto dal Padre suo, e nostro (cf. Gv 10,18).
La sua è la regalità del dono, o ancora meglio del ‘perdono’, perché nella sua persona si afferma e si manifesta fino alla fine, fino ad un istante prima di morire, la volontà di misericordia di Dio per tutti gli uomini, per ciascuno di noi. Riportiamo alla memoria la promessa rivolta al malfattore in croce: “oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). L’amore regna dall’inizio alla fine nell’esperienza umana del figlio di Dio perché Dio stesso è amore, dice la prima lettera di San Giovanni (cf. 1 Gv 4,16). Questa è la verità di cui Gesù è venuto a dare definitiva testimonianza. Dio è amore. Una verità che non poteva essere annunciata se non amando i suoi discepoli – e in essi tutti gli uomini - fino al termine biologico del suo cammino terreno (cf. Gv 13,1ss), non semplicemente a parole
Ne deriva una seconda buona notizia che ci riguarda da vicino: con Gesù e in Gesù possiamo regnare anche noi, sempre però collocandoci nella prospettiva del ‘lassù’, non del ‘quaggiù’. Noi regneremo in eterno con Gesù a condizione di entrare nella sua Pasqua, o detto altrimenti, di vivere – per grazia sua e per la forza del suo amore – quegli stessi suoi atteggiamenti di compassione, di attenzione ai fratelli, specialmente i più deboli, a costo anche della nostra stessa vita.

mercoledì 13 novembre 2024

Tutto passa, Dio resta

 

 Commento al Vangelo della XXXIII domenica del Tempo Ordinario/B – 17 novembre 2024


+ Dal Vangelo secondo Marco (13,24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».


Commento

 Quante volte abbiamo esclamato: “Ma è la fine del mondo!”, per sottolineare la grandiosità o la straordinarietà di un fatto. O cose simili. Delle espressioni, diremmo noi, iperboliche per comunicare la forte impressione ricevuta da un qualcosa per la quale non ci basta il vocabolario a disposizione. Il modo di parlare da Gesù, che riprende una espressione del profeta Daniele, appartiene a un gergo detto ‘apocalittico’ in uso in Palestina negli ultimi secoli precedenti la venuta di Cristo. Un gergo, o genere letterario, con cui si descriveva e si dichiarava l’attesa di un Messia-salvatore che avrebbe radicalmente ribaltato le sorti della storia, non molto favorevoli a Israele in quei tempi.
Gesù è consapevole di essere colui che metterà punto nelle alterne vicende del popolo ebreo e di tutta l’umanità. Tutto passa ma ciò che non passerà mai sarà proprio la sua parola, rispetto alla quale ogni altro avvenimento resterà sempre penultimo. La sua parola resterà in eterno e in particolare il suo giudizio fondato sulla carità: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare…Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35. 40).
Quindi la storia ha una direzione, ha una fine: dal primo versetto della Genesi. “In principio Dio creò il cielo e la terra” al momento in cui “il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria”. Ma proprio perché il compimento della storia è Gesù, nella sua piena e definitiva manifestazione divina, la storia non ha solo una fine ma anche un fine. Tutti gli sconvolgimenti, tutte le disavventure umane, tutte le violenze umane non impediranno la piena manifestazione del progetto di Dio, di radunare tutti “i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13 27), lo abbiamo appena sentito.

Da ciò deriva la profonda differenza tra la speranza cristiana e un generico ottimismo. Questo, l’ottimismo, spesso viene inteso in modo ingenuo, come se le cose che non vanno – guerre, carestie, ingiustizie – dovessero risolversi da sole, in modo più o meno automatico. No. Per un cristiano le cose si ristabiliranno sì, ma ad opera di Gesù: è lui il termine della nostra speranza e con lui saranno pienamente ‘ristabiliti’, rigenerati alla vita eterna, tutti coloro che non hanno svenduto la propria elezione, la propria figliolanza divina, che non hanno sciupato il seme della Parola di Dio.

E allora un terzo e ultimo passo. Questo vangelo, se lo leggiamo bene, ci spinge a rivolgere lo sguardo non al futuro, ma al presente. Nessuno conosce ‘quel giorno’ in cui giungeranno ‘i nuovi cieli e una nuova terra’; tanto vale allora investire sull’unico tempo a disposizione: oggi. Oggi è l’unico luogo per accogliere la sua parola di vita eterna. Dice la lettera agli ebrei: “Dio fissa un nuovo giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!” (Eb 4,7). Potrebbe sembrare una contraddizione in termini ma per non perdere l’eternità occorre non perdere il treno del presente, …aprire il cuore e accogliere la parola di misericordia del Signore.

domenica 10 novembre 2024

Se la nostra moneta va fuori corso

 

 Commento al Vangelo della XXXII domenica del TO/B – 10 novembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Marco (12,38-44)

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».


Commento

 Qualche anno fa in un convento un confratello ha ritrovato qualche banconota da 50 mila lire, messe da parte in mezzo alle pagine di un libro. Ovviamente non ha potuto convertirle in euro, nemmeno presso la sede locale della Banca d’Italia e quindi…semplicemente carta straccia. Ho l’impressione che coloro che pensano di ‘comprare’ il regno di Dio col valore della loro moneta, o delle loro tante monete rischiano la stessa amara delusione.
Gesù ci offre in questo brano uno sguardo diverso per misurare il valore dei gesti che facciamo. Il mondo, la logica corrente e - mi sembra di poter dire – prevalente, sottolinea il valore numerario, quantitativo delle cose che facciamo: si cerca di quantificare il valore di un’ora di lavoro, il valore di una prestazione professionale, e addirittura si arriva a quantificare il valore dell’uso del denaro per una minima frazione di tempo. Ciò che interessa è il potere d’acquisto, cioè, capire quante cose posso acquisire con una data risorsa.
Gesù invece “chiamati a sé i suoi discepoli” conduce ad un altro tipo di valutazione: non tanto il potere d’acquisto ma il valore del dono. Le molte monete dei tanti ricchi indubbiamente avranno contribuito notevolmente di più alle spese del tempio, rispetto alle due monetine della povera vedova, ma quelle due monetine hanno un valore più grande agli occhi di Dio perché esprimono un dono enormemente più grande. Li c’era tutto il necessario per vivere, tutta la vita di quella donna. Il punto non è se abbia fatto bene o abbia fatto male a privarsi anche del necessario; il punto è la misura di valutazione che il Signore ci vuole insegnare che è quella del cuore e non quella dei numeri. La nostra preoccupazione non deve essere quella della ricerca del plauso della gente – ricorderete l’ammonizione di Gesù “quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente” (Mt 6,2) – e non deve essere nemmeno quella dell’autogiustificazione silenziosa che potremmo darci da soli per il fatto che compiamo un gesto in sé buono o dovuto, ma che potrebbe non costarci nulla, e non coinvolgere minimamente il nostro cuore. Dice il Signore a Samuele che andava cercando chi ungere come re d’Israele: “L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (1Sam 16,7). La moneta che avrà corso legale nel regno dei cieli è quella della carità, della compromissione della vita per amore, non quella delle prestazioni adempiute. Al Signore non interessa la bellezza del tempio di mattoni, interessa piuttosto che la nostra vita sia un tempio, un tempio che custodisce e trasmette il suo amore e la sua infinita gioia.  


giovedì 31 ottobre 2024

Amare: adesione prima che rinuncia

 
+ Dal Vangelo secondo Marco (12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Commento

 Anzitutto nella preghiera di Colletta che introduce la Messa domenicale il sacerdote chiede per tutta l’assemblea la grazia dell’ascolto. “Ascolta, Israele…” In realtà è questo il primo comandamento trasmesso da Mosé e ripreso da Gesù: essere capaci di ascolto o, meglio, di ascoltare con sincerità, con reale disponibilità, in una relazione aperta con l’altro. Non si può amare Dio e neppure il prossimo se sussiste chiusura pregiudiziale.

Secondo punto. Amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi sono due precetti che esistevano già nell’Antico testamento ma che vengono messi in stretta relazione da Gesù perché l’uno implica l’altro. La carità verso il prossimo non sottrae nulla a Dio e viceversa, anzi proprio attraverso la vita dei fratelli noi possiamo “restituire” e ringraziare Dio per l’amore da lui ricevuto. San Giovanni ricorda nella sua prima lettera (1 Gv 4,20): “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.
Detto in altre parole: - dice Papa Francesco - in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio (Gaudete et Exsultate 61)
Non dovremo mai scoraggiarci e temere di non esserne capaci, perché il nostro sguardo nei giorni scorsi si è soffermato sulle migliaia di santi che hanno vissuto questa radicalità dell’amore, in mille modi. E Papa Francesco nella lettera apostolica (Gaudete et Exsultate 22) ci ricorda che “non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto”. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita”. Proprio l’insieme della nostra vita dice il desiderio, l’orientamento del nostro cuore; l’eroicità delle virtù cristiane sta proprio qui, nella costante tensione ad amare sempre, con tutte le cadute che possono stare nel mezzo.

Terzo. La santità, la chiamata ad amare è per tutti, ma c’è una condizione imprescindibile: essere radicati nella vita di Cristo, attingere alla sua Grazia, vivere del suo respiro. Benedetto XVI ci ricordava che la misura della santità “è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua” (udienza 13 aprile 2011, 450). Amare è quindi possibile, perché Dio nella persona di Cristo, e nell’energia dello SS, ci ha amato per primo. Se riconosciamo questi due comandamenti come i fondamenti della nostra fede, non siamo lontani dal regno di Dio. Ma solo se riconosciamo e accogliamo la centralità di Cristo, nel regno di Dio potremo metterci i piedi.

giovedì 24 ottobre 2024

Treno della vita, direzione Gerusalemme

  

Commento al vangelo della XXX domenica del TO/B – 27 ottobre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (10,46-52)

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Commento

Gesù sta per lasciare Gerico, ultima tappa prima della destinazione finale Gerusalemme. Un uomo mendicante intuisce che quell’uomo, è esattamente colui che lo può guarire. Lo chiama “Figlio di Davide”, espressione con cui la tradizione indicava il Messia, il liberatore di Israele, e dunque facendo una sintetica professione di fede.
Egli chiedeva semplicemente di tornare a vedere, ma la risposta di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato” dice qualcosa di più di una guarigione fisica. La salvezza che egli è venuto a portarci manifesta certamente la sua efficacia e la sua potenza tramite segni fisici ma i suoi effetti si prolungano su un orizzonte di eternità. Anche ad una donna malata di emorragia il Maestro aveva dato la stessa risposta, perché quella donna era convinta che le sarebbe stato sufficiente accostarsi nel silenzio e toccare il mantello del Signore (cf. Mc 5,21-34).
Per Bartimeo è stato il suo grido di supplica che gli ha permesso di “toccare” Gesù: un grido uscito dal profondo della sua esistenza di sofferenza e di menomazione, un grido che ha vinto le resistenze di una folla che voleva indurlo a tacere, a non disturbare il percorso del Maestro nazareno.
Anche per noi la supplica è la maniera concreta per entrare in contatto col Signore. Dovremmo però esser capaci di far uscire dal cuore una preghiera non convenzionale, ma nutrita dalla fede, e per questo Gesù ci invita a non sprecare parole, quando preghiamo, come quelli che credono di essere esauditi a forza di parole (cf. Mt 6,7-8); ma piuttosto ad avere fiducia che in un modo o in un altro il Padre ci esaudirà. “Chi di voi a un figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?” (Mt 7,9) dice Gesù. Ecco la nostra forza: la fede.  

 Lo sappiamo bene: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8) ma non tutti i momenti sono uguali, e dobbiamo riconoscere che ci sono certi “treni” che passano solo poche volte nella vita, e che possono cambiare le tenebre in luce, “il nostro lamento in danza, e la nostra veste di sacco in abito di gioia” (Sal 30,12).
Mi vengono in mente le parole di una canzone di Lucio Dalla: “Felicità, su quale treno della notte viaggerai. Lo so che passerai, ma come sempre in fretta; non ti fermi mai”. Il Signore non ha sicuramente fretta, anzi egli sempre è presente nella nostra vita. Eppure le diverse circostanze della vita e gli incontri che facciamo possono rappresentare occasioni di diversa intensità per tornare a vedere, per tornare a riconoscere nei tanti volti delle persone con cui ci relazioniamo il volto dell’uomo Gesù, che ci chiede di seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme.


venerdì 18 ottobre 2024

Chi non serve qualcuno non serve a nessuno!

 

 Commento al vangelo della XXIX domenica del TO/B – 20 ottobre 2024



Dal Vangelo secondo Marco (10,35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».


Commento

 Se due domeniche fa si diceva che parlare dell’indissolubilità del matrimonio cristiano è come sparare sulla Croce rossa, oggi parlare dall’autorità nella Chiesa come servizio potrebbe sembrare cosa altrettanto ingrata; non tanto per la degnità morale di chi ricopre uffici di governo ecclesiale ma per la sovrapposizione avvenuta nei secoli passati tra competenze civili ed ecclesiali. Non dimentichiamo che con l’editto dell’imperatore Teodosio del 380 il cristianesimo divenne religione di stato dell’Impero romano e che fino al 1870 nelle nostre terre è esistito un’autorità politica che si chiamava Stato della Chiesa. Con grande fatica ci potremo sbarazzare di un’eredità che ci ha lasciato molte ombre insieme, ovviamente, a tante luci di santità vissuta.
Giacomo e Giovanni comprendono di essere con Gesù alla presenza del Kyrios, del Signore della storia, ma non hanno ancora chiaro cosa vorrà dire bere il suo calice ed essere immersi nel suo battesimo, e anzi sembra evidente in loro il desiderio di circumnavigare, di passare al largo della vicenda della passione-morte per arrivare direttamente alla gloria, sedendo uno alla destra e uno alla sinistra di lui. Per contrasto ci vengono piuttosto in mente i due ladroni crocifissi, questi sì, uno alla destra e uno alla sinistra di Gesù. In effetti la volontà umana di Gesù può arrivare fino al Golgota, fino al luogo della crocifissione, e non oltre.
Per questo alla richiesta dei due fratelli in cerca di carriera Gesù non dice di “no”, fateci caso: afferma semplicemente che non spetta lui a decidere farli sedere a fianco a lui nella sua gloria. Anzi aggiunge nelle parole successive che lui è il figlio dell’uomo venuto per servire, cioè per dare la vita, non per affermare il suo potere sugli uomini. Ed è così che dovranno fare i suoi discepoli, seguendo le sue orme: preoccuparsi di essere a servizio degli uomini, di donare la loro vita a beneficio degli altri. La vera autorità, la vera grandezza dei servi di Cristo è di essere collaboratori della gioia dei fratelli, come dice San Paolo nella II lettera ai Corinti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24).
Questo, attenzione bene, è lo stile di vita di ogni cristiano, non solo di colui che ha una qualche responsabilità ecclesiale o civile. Possiamo ben dire che “chi non serve qualcuno, non serve a nessuno”, e sarà tra quelli di cui il Signore nel giudizio finale dirà: “avevo fame e non mi avete dato da mangiare, ero forestiero e non mi avete accolto” (cf. Mt 25). Inevitabilmente chi prova a servirsi di Dio per i propri sogni di gloria, non potrà che servirsi degli uomini per farne sgabello dei propri piedi, e viceversa.
In questi due discepoli facciamo quasi fatica a riconoscere coloro che dopo la pasqua di Cristo e dopo il fuoco della pentecoste diventeranno, Giovanni l’apostolo evangelista, custode della madre di Dio, e Giacomo il primo apostolo martire,… quasi troviamo coraggio dalla loro conversione. In conclusione, a ciascun cristiano, attraverso la parola di oggi, il Signore rinnova una domanda: “Chi, veramente cercate?”


giovedì 10 ottobre 2024

Non è questione di ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente)

 

Commento al vangelo della XXVIII domenica del TO/B – 13 ottobre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (10,17-30)

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Commento

 Non è questione di ISEE. Il problema non sta negli zeri del conto in banca ma nel peso cha la presenza di Cristo ha nella nostra vita. Nella preghiera di Colletta di questa domenica pregheremo così: “O Dio nostro Padre, […] donaci di amare sopra ogni cosa Gesù Cristo, tuo Figlio, perché, […] diventiamo liberi e poveri per il tuo regno.” L’ascetismo cristiano non si basa sul radicalismo delle rinunce, ma sul radicalismo dell’appartenenza a Cristo, del metterlo al primo posto in ogni cosa che facciamo.
Non si può pensare di scoprire e di conoscere il volto di Dio partendo da se stessi, e dal proprio impegno nello spogliarsi di quante più ricchezze possibili. Sarà evidentemente il contrario: sarà possibile seguire Gesù mettendo al secondo posto tutto il resto, solo lasciandosi toccare dall’incontro con lui e con il suo amore: tramite l’affetto ricevuto dai nostri cari, a partire del riconoscimento dei tanti benefici ricevuti nella vita, o attraverso la contemplazione della sua presenza nella bellezza del creato o nelle personali esperienze spirituali.  L’evangelista Marco è l’unico dei tre evangelisti – gli altri due sono Matteo e Luca – a dirci che Gesù “fissandolo, lo amò”. Ecco: forse quell’uomo non ha colto la densità di quello sguardo che voleva indicargli il completamento del suo itinerario spirituale, a partire da un incontro personale.
O forse quell’uomo non ha capito fin da subito di non trovarsi semplicemente davanti ad un grande maestro, ma davanti a Dio in persona. Prima lo chiama “maestro buono”. Poi quando Gesù gli fa presente che solo Dio è buono, egli si corregge e lo chiama semplicemente “Maestro”. Se Gesù non è riconosciuto per quello che è, cioè il Dio fatto uomo che irrompe nella storia, “il bene, ogni bene, il sommo bene” come lo chiamava Francesco d’Assisi, qualsiasi possesso - materiale o immateriale che sia - sarà sufficiente a illuderci di essere ricchi di qualcosa e ad impedirci di entrare nel regno di Dio. Teniamo a mente la prima beatitudine di Gesù: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Se non saremo convinti di quanto sia bello e umanamente appagante vivere nell’amore di Cristo Signore ci sarà sempre una cruna d’ago ad impedirci l’ingresso nella gioia senza fine.


mercoledì 2 ottobre 2024

Graziati e liberi di amare

 

 Commento al vangelo della XXVII domenica del TO/B – 6 ottobre 2024

 
Dal Vangelo secondo Marco (10,2-16)

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

 

Commento

 Il Signore nella creazione fece dell’essere umano una coppia, un maschio e una femmina e poi chiese loro di unirsi e di essere uno. Da una unità crea una coppia e poi chiede loro di essere un’unità. La comunione è un dono, la comunione non può essere imposta, altrimenti sarebbe sottomissione. Questo esige però un cuore disponibile, aperto all’accoglienza del “tu”, un cuore da bambino, come tante volte raccomandato da Gesù. “a chi è come loro appartiene il regno di Dio” (Mt 19,14).
E l’uomo che da subito non si è fidato di Dio, ha perso questa capacità ricettiva, questa capacità di accogliere la paternità di Dio, e di conseguenza il fratello, e i rapporti sono degenerati, sono divenuti conflittuali, competitivi, e il cuore dell’uomo è diventato sempre più duro.
Per questo Mosè permise all’uomo di dare un atto di ripudio alla propria sposa, perché una simile unione, nella condivisione di una vita intera richiedeva un cuore nuovo, uno spirito nuovo; richiedeva un trapianto di anima come profetizzato da Ezechiele al capitolo 36 del suo omonimo libro: “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. ” (Ez 36,26-27).  E questo si è realizzato solo con Gesù nel dono del Santo Spirito nel giorno della Pentecoste. Ora, parlare dell’indissolubilità del matrimonio cristiano può sembrare come sparare sulla Croce rossa, ma la grazia dell’unità, della congiunzione delle vite che Cristo rende possibile all’uomo e alla donna nel sacramento delle nozze non potrà mai essere un atto automatico, così come il Battesimo non genera automaticamente la fede. Se la Grazia è, come dice la parola stessa, gratuita, resterà sempre un dono libero che necessiterà di essere custodito e coltivato, giorno per giorno, nella libertà dei figli di Dio.

mercoledì 25 settembre 2024

Gesù, non basta la parola!

 

 Commento al vangelo della XXVI domenica TO, anno B – 29 settembre 2024


Dal Vangelo secondo Marco (9,38-43.45.47-48)

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
 

Commento

 Una prima preoccupazione di Gesù: non facciamo della fede la pretesa di monopolizzare Dio. Sicuramente Gesù ha scelto di identificarsi con l’agire dei suoi discepoli e più in generale del suo corpo ecclesiale, ma questo non esclude, e di fatto storicamente così è successo in questi 2 mila anni di cristianesimo, che Gesù possa scegliere di agire anche al di fuori dei confini visibili della sua Chiesa. Non abbiamo constatato che la sapienza del vangelo ha operato più di una volta, anche attraverso grandi uomini non cristiani? Gandi, uno per tutti.
Seconda preoccupazione di Gesù: gli scandali. Qui il problema è contrario: ci sono degli uomini che formalmente sono “dentro” il recinto della chiesa ma che si comportano in maniera dissonante con ciò che professano. Le parole del Signore sono terribili: “meglio per lui che gli venga messa al collo una màcina da mulino e sia gettato nel mare”.
In definitiva, da questi brevi moniti di Gesù, possiamo dire che l’appartenenza a Gesù, la comunione con lui non è garantita né da un’appartenenza esteriore, associativa, e neppure da un uso formale, quasi strumentale dell’autorità di Gesù, e neppure da qualche miracolo.
Giova allora ricordare quanto Gesù dice al termine del discorso della montagna: “Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: ‘Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?’ Ma allora io dichiarerò loro: ‘Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”. (Mt 7, 21-23)

Proprio così: si potrebbe riuscire a fare tante cose belle e prodigiose nel nome del Signore, ma esse non indicherebbero un vero rapporto di fedeltà e di amicizia con Lui quanto quel tratto che inequivocabile che segnala il discepolo di Cristo: la carità (il dono di sé). Si può entrare nella vita eterna senza mani, piedi o anche mezzi ciechi, ma la carità resterà l’unico corredo indispensabile per entrarvi e l’unico motivo della nostra eterna gioia.

mercoledì 18 settembre 2024

Linfinitamnete Grande si rivela nell'infinitamente piccolo

 

Commento al vangelo della XXV domenica del Tempo Ordinario, anno B – 22 settembre 2024

 

Dal vangelo di Marco (9,30-37)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Commento

Gesù parla di nuovo della sua passione e morte (e risurrezione), e i discepoli discutono su chi tra loro è il più grande. Forse sono così lontani dal comprendere cosa potrà essere la resurrezione del loro maestro che si preoccupano già di stabilire la successione, come se Gesù dovesse morire per sempre. Non è così anche per molti cristiani di oggi che non credono che Gesù sia vivo, in quanto, appunto, risorto? Alla domanda “chi è il capo della Chiesa?” non sarebbero in molti a rispondere tutt’oggi: “il Papa”? Il vangelo ci dice che i discepoli non capivano quelle parole, e anche noi non possiamo dire di averle capite appieno.

Probabilmente non siamo capaci di accorgerci che il Signore è vivo perché lui, nella sua infinita maestà, ha preferito manifestarsi nei piccoli del mondo, di cui i bambini sono una categoria significativa perché fragili, senza malizia, semplici. Non solo Gesù continua ad essere presente tra noi, dopo aver compiuto il nuovo esodo, quello della Pasqua, ma continua ad essere presente nei piccoli, negli ultimi, in coloro che sono nei gradini inferiori della scala sociale. Non era questa la ragione per cui San Francesco volle chiamare “frati minori” la sua fraternità? Lo scandalo della croce quindi non è solo accettare che il Cristo sia passato attraverso la morte per entrare nella gloria, ma anche che la sua presenza continui di preferenza tra coloro che il mondo esclude: il contrario di quelle bambole di legno dove quella più piccola sta dentro quella più grande. Nel caso di Cristo il più grande sta nel più piccolo. Nei bambini tocchiamo il mistero della persona di Cristo, e nella persona di Cristo tocchiamo colui che lo mandato, Dio Padre. L’infinitamente grande si trova nell’infinitamente piccolo.

giovedì 12 settembre 2024

Il falso e il vero “io”

 

Commento al vangelo della XXIV domenica del Tempo Ordinario, anno B – 15 settembre 2024


Dal Vangelo di Marco (8,27-35)

 In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà»


Commento

 Non sono poi così pochi, probabilmente, quelli che sono disposti a credere che Gesù di Nazaret sia stato un uomo straordinario, fuori da ogni misura di paragone con qualsiasi altro personaggio della storia. Pietro afferma nella sua risposta la convinzione che Gesù è ben oltre tutto questo, che egli è il Messia – nella lingua greca il Cristo – cioè, l’unto, il prescelto da Dio per salvare gli uomini, partendo da Israele. Dove non arriva Pietro, e dove non potrà mai arrivare nessuno di noi senza la forza dello Spirito di Dio, è che l’unto di Dio però possa soffrire, addirittura morire e poi risorge.

Probabilmente l’apostolo si blocca alla parola “venire ucciso”, e non arriva neppure a cogliere la parola successiva “…e dopo tre giorni risorgere”. A Pietro e anche a noi resta difficile accettare l’esperienza della Pasqua di Gesù, cioè il suo passaggio attraverso il dolore. Pietro rispecchia il pensiero degli uomini, diremmo noi il pensiero del mondo, che non pensa secondo Dio e cerca invece una sopravvivenza naturale, biologica, immediata, in pratica una propria auto-conservazione.

Invece Gesù nel rivelarsi al mondo ci svela il vero modo di salvarsi: offrire la propria vita nell’amore a Dio-Padre e ai fratelli, rinunciando all’idea di potersi salvare per i propri meriti derivanti dalla stretta osservanza di una legge religiosa. Chi ha accolto veramente l’amore di Dio-Padre che Gesù ci ha portato non potrà che trasmetterlo ai fratelli, restituendo al prossimo ciò che lui per primo gratuitamente sente di aver ricevuto.

Per affermare il nostro vero “io”, quello pensato in origine ad immagine e somiglianza di Dio avremo sempre bisogno, quindi, di un “Tu”: di Cristo anzitutto e dei fratelli con cui intraprendere una relazione di dono, di amore, di comunione, fuggendo così dalla tirannia del falso io, o di Satana , come direbbe Gesù, che ci spinge sempre ad un’affermazione solitaria e individualista, slegata da tutto e da tutti.

giovedì 5 settembre 2024

…ma Gesù sta alla porta e bussa

 

 Commento al vangelo della XXIII domenica del TO, anno B – 8 settembre 2024


Dal Vangelo secondo Marco (7,31-37)


In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».


Commento

 Le parole di Gesù al sordomuto dell’episodio di oggi hanno qualcosa di complementare rispetto alle vive raccomandazioni che abbiamo ascoltato domenica scorsa. Ricordate? “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: “ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro.” (Mc 7,15 ss). E Gesù si riferiva al cibo che, quale esso sia,  non può rendere impuro il cuore. Dicevamo piuttosto quanto sia importante vegliare su ciò che accade nel cuore, che è la centrale di comando, la centrale operativa dell’uomo, in cui ognuno è in ascolto della propria coscienza morale.
Se veramente vogliamo che nulla di male esca da esso dovremmo fare in modo che il cuore sia sempre abitato, che non sia mai vuoto, ma che sia abitato anzi dallo spirito del Signore. Questa parola che Gesù rivolge al sordomuto, “Effatà, Apriti!” egli la rivolge in ogni tempo a ciascuno di noi: “apriti alla presenza del Signore!”. Un invito, non certo un comando, al quale possiamo opporre un rifiuto, perché Gesù è venuto per realizzare quanto Dio aveva promesso tramite il profeta Ezechiele (cf. 36,16). “Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme”.
Noi non possiamo non amare qualcosa o qualcuno. Anche l’ateo, infondo, ama qualcosa, ha le sue divinità, magari non di carattere trascendente. Allora se nel cuore non accogliamo il Signore, non apriamo la porta al suo spirito, ebbene allora inevitabilmente andremo alla ricerca di qualche falso dio, di qualche palliativo, ma così facendo la nostra sete diventerà sempre più acuta. Proviamo a fare nostra la raccomandazione di san Francesco che nel capitolo XXII della sua prima regola (detta non bollata) così scrive: “Sempre costruiamo in noi una casa e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio onnipotente…” (RnB, XXII,27; FF 61).


giovedì 29 agosto 2024

2 - 5 - 6 - 3... Solo questione di cuore

 

Commento al vangelo della XXII domenica del TO, anno B – 1 settembre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (7,1-8.14-15.21-23)

In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate - i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto:
‘Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini’.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
 

Commento

 Oggi diamo i numeri: 2-5-6-3. Questo è il numero del CCC dove si descrive in maniera molto sintetica – sottolineiamo: molto – cosa è il cuore: e cioè, si dice, “…il cuore è il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte”.
Vi faccio notare la premura di Gesù “Chiamata di nuovo la folla, ( e di solito è il contrario ) diceva loro: ‘Ascoltatemi, comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro”.
Allora bisognerà fare attenzione a come formuliamo le nostre decisioni, da chi ci lasciamo consigliare e suggestionare. E qui, si, bisogna stare attenti a ciò che entra dal di fuori, i cattivi pensieri che lasciamo entrare nel nostro cuore. Occorre tanta vigilanza, e come dice Papa Francesco, bisognerà interrogare i pensieri che vagano nella mente: “Ma tu vieni da Dio, o vieni dal nemico” E se la coscienza ci dovesse ispirare, subito o più facilmente alla fine della giornata, che un’ispirazione non viene da Dio, con fermezza occorrerà dirgli: “fuori di casa, pensiero birichino, non ti ho dato il permesso di entrare!”
E per il resto la scelta del cibo da mangiare non sia frutto di preoccupazioni rituali ma soprattutto del grave obbligo di coscienza di condividerlo con chi non ne ha o fa tanta più fatica di noi a procurarselo.


domenica 18 agosto 2024

La carne non giova a nulla

 

Commento al vangelo della XXI domenica del TO, anno B – 25 agosto 2024


Dal vangelo di Giovanni (6,60-69)

 In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono».
Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Commento

 “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita.” (Gv 6,63). Qui capiamo ancora meglio perché occorra nutrirsi della carne di Gesù, della santa eucaristia, per avere la vita eterna: non si tratta di una carne semplicemente umana, ma di una carne trasfigurata, divinizzata dallo Spirito di Dio che l’ha intessuta nel grembo della Vergine Maria, e sulla quale Dio Padre ha messo la sua compiacenza, o – come Gesù stesso ha detto pochi istanti prima – ha messo il suo sigillo (cf Gv 6,27) .
La carne di per sé non giova a nulla, ma quell’umanità di Gesù è la carne assunta dal Figlio di Dio ed ha attraversato la Pasqua, la soglia della morte, e per questo ora essa, nel sacramento dell’Eucaristia, è capace di associare al suo destino di gioia eterna tutti coloro che la riceveranno in dono.
Ma la durezza di questa parola percepita dai discepoli non è solo il doversi nutrire di una vita altrui, ma forse soprattutto il fatto che fare comunione con lui, unirsi a lui non potrà restare solo in un ambito cultuale e rituale, ma dovrà essere anche una comunione nello stile di vita, esistenziale, nel saper essere dono per gli altri, pane spezzato per gli altri. Proprio come lo è stato Gesù. Questo ci dischiuderà le porte del paradiso: l’accoglienza del dono ma anche la restituzione di esso tramite l’amore ai fratelli.
Ecco che i criteri del mondo sono ribaltati. Non sono grandi quelli che dominano sugli altri, che possiedono di più degli altri, che sono più forti degli altri, ma quelli che si donano agli altri, che offrono la propria vita nel nascondimento per gli altri, anche nel silenzio della preghiera contemplativa che è sempre anche una preghiera offerta per il mondo.

San Paolo ammonisce: “Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” 2Cor 4,18.


mercoledì 14 agosto 2024

Due vite in una

 

 Commento al vangelo della XX domenica del Tempo Ordinario, anno B - 18 agosto 2024
 

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,51-58)

In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».


Commento

 Nutrirsi del pane del cielo non significa solo ascoltare la parola del Signore, l’insegnamento di Gesù, ma addirittura mangiare la sua stessa carne e bere il suo stesso sangue. Queste parole suonarono durissime agli ascoltatori di Gesù, soprattutto a coloro che non conoscevano in profondità le Scritture; ma suonano dure anche a tanti cristiani, o se dicenti tali, di oggi, che non capiscono cosa voglia dire mangiare la carne di Gesù.

Dovremmo sfogliare alcune pagine dell’Antico testamento e andare a ritrovare quel passo in cui il profeta Isaia (cf. Is 6,1 ss) viene inviato a proclamare la parola di Dio dopo che un angelo ha sigillato con un carbone ardente le sue labbra, o il passo in cui il Signore dice al profeta Geremia “ecco io metto le mie parole sulla tua bocca” (Ger 1,9) o il passo di Ezechiele dove si dice che il Signore lo invitò a mangiare la sua pergamena prima di andare a profetizzare alla casa di Israele (cf. Ez 3,1-4).

Ebbene, ora Gesù, il verbo fatto carne, la parola di Dio, la sapienza di Dio fatta carne, va ancora più in là. Invita gli uomini, coloro che credono in lui, a cibarsi della sua carne, cioè ad entrare in un rapporto ancora più profondo con lui, con la parola di Dio: in un processo di assimilazione vitale. Dicevo domenica scorsa una “simbiosi” cioè una sorta di unione delle vite come esprime il significato di questa parola. 

Ecco che chi mangia la parola di Dio divenuta carne in Gesù non mangia un cibo materiale, non pone un atto di cannibalismo, ma nel segno concreto del pane (consacrato) approfondisce l’unione della propria vita con quella di Gesù, con la sua vita umana e divina; vivrà di una vita nuova, umano-divina appunto, che si innesterà senza snaturarla nella sua vita biologica.
Per questo chi ha vissuto di Cristo ha compiuto gesti come quelli di Gesù, e soprattutto ha condiviso i suoi stessi atteggiamenti del cuore. In fondo proprio questo è l’obiettivo del discepolo di Cristo: riprodurre nella propria umanità gli stessi sentimenti che furono nel cuore del proprio maestro.


sabato 10 agosto 2024

Più lento, più debole, più in basso!

 

 Commento al vangelo della XIX domenica del TO, anno B – 11 agosto 2024

 

Dal vangelo di Giovanni (6,41-51)

 In quel tempo, i Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: ‘Sono disceso dal cielo’?».
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: ‘E tutti saranno istruiti da Dio’. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre.
In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».


 Commento

 Un crescendo di stupore e di profondità del mistero dell’incarnazione. Gesù, dopo aver nutrito migliaia di uomini con 5 pani e due pesci, ha iniziato il suo discorso nella sinagoga di Cafarnao annunciando che per chi ha fede in lui non ci sarà mai alcuna sete o fame per cui soffrire. Nella sua amicizia si trovano le ragioni profonde per l’impegno nelle cose del mondo e le radici per sperare ciò che da soli non potremmo mai realizzare.
Ora Gesù fa un passo avanti. Non solo la fede in lui è il nutrimento della nostra vita, ma addirittura questa fede sarà alimentata dal cibarsi della sua stessa carne. Qui tocchiamo il cuore del mistero dell’incarnazione e quindi dell’Eucaristia, perché per custodire la nostra amicizia con il Signore occorrerà nutrirsi della sua stessa vita, del suo corpo spezzato per noi, storicamente avvenuto sulla croce, ritualmente rivissuto sull’altare. Il cibarsi della sua carne, sacramentalmente presente nel pane eucaristico non solo significa e simboleggia una profonda intimità con la sua vita, ma anche la realizza. Significa accogliere la sua proposta totalmente disarmata di comunione con lui.
A proposito di giochi olimpici, sappiamo che il motto è citius, fortius, altius (più veloce, più forte, più in alto). Gesù vince le olimpiadi degli esatti opposti: lui va più lentamente di tutti per fermarsi, come buon samaritano, presso tutti i disperati della storia. Lui, onnipotente, si è fatto il più debole di tutti perché noi potessimo essere forti grazie a lui. Lui, l’Altissimo, si è abbassato fin sotto il più piccolo degli uomini, perché tutti possano essere innalzati con lui nella gloria del Padre.


domenica 28 luglio 2024

Il nutrimento della nostra vita

 

Commento al vangelo della XVII domenica del TO, anno B – 28 luglio 2024


Dal vangelo di Giovanni (6,24-35)

 In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?».
Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo».
Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato».
Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!». 

 

Commento

 ‘Io sono il pane della vita’. Questa è una delle solenni autopresentazioni di Gesù, tipo ‘Io sono la vera vite, io sono la via, la verità, la vita”. Dopo aver nutrito una grande folla (lo abbiamo ascoltato nel vangelo di domenica scorsa) Gesù, nella sinagoga di Cafàrnao, accompagna quelli che lo cercano a non accontentarsi del cibo che sazia solo per qualche ora, e che comunque non oltre la vita terrena, ma anche a occuparsi di un cibo che nutre a sazia per – attenti a questa parola! – che sazia per l’eternità. L’evangelista Giovanni non parla mai di miracoli ma di ‘segni’ proprio perché Gesù cerca sempre non solo di soddisfare una necessità immediata ma anche di intercettare una domanda di senso e di vita ben più profonda e radicata nel cuore dell’uomo.

Certo: l’uomo ha bisogno di cibo, ma Gesù ci ricorda, come disse al tentatore nel deserto, che ‘non di solo pane vivrà l’uomo ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio’ (Mt 4,4). O nel discorso della montagna Gesù dice: ‘Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? 32 Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. 33 Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta’. (Mc 6,31-33).
In definitiva quando avremo accolto Gesù, quando avremo fede in lui, quando cioè avremo capito che nel suo spirito, vivente, c’è la possibilità di vivere in modo radicalmente nuovo, continueremo ad aver bisogno di mangiare, almeno 3 volte al giorno, ma non vivremo nell’ansia per il domani; continueremo a dover lavorare per sovvenire alle nostre necessità come tutti gli uomini, ma non saremo più schiavi del lavoro; avremo sempre bisogno di relazionarci con il mondo, fatto di persone e di relazioni, ma non saremo più schiavi del mondo e di quello che il mondo pensa di noi. Riflettiamo un attimo tra parentesi: ci sarà pur un motivo per questo sempre più ampio ricorso a sonniferi, ansiolitici e antidepressivi!

Ecco, quindi cosa significa nutrirsi di Cristo e della sua parola, o cercare anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia: significa vivere in maniera degna dell’amore e della vocazione che abbiamo ricevuto, cercando di piacere a Dio nostro padre in ogni cosa. Pace e bene!

mercoledì 24 luglio 2024

La cura dell'essenziale

 Commento al vangelo della XVII domenica del TO, anno B – 28 luglio 2024

Dal vangelo di Giovanni (6,1-16)
In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi. Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzati gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere. Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C’era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!». Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.

Commento

 Apriamo con la domanda di Gesù: “Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?”. La domanda va nella stessa direzione del vangelo di domenica scorsa, ove si diceva che Gesù sentiva compassione per le folle, perché erano come pecore senza pastore. E non c’è neppure nessuno che si occupa del loro nutrimento.
I discepoli hanno in cassa 200 denari, ma poi spunta fuori un ragazzo con i suoi 5 pani e 2 pesci, più che sufficienti per lui ma ridicolamente insufficienti per gli altri 4999 pellegrini. Qui interviene il colpo di scena del Maestro: dopo la preghiera di rendimento di grazie Gesù distribuisce quel poco cibo che incredibilmente risulta ampiamente sufficiente, tanto da esserci 12 ceste di pane in avanzo.
Qualcuno ha sostenuto che Gesù non abbia moltiplicato il cibo presente, ma piuttosto abbia moltiplicato la generosità dei cuori, facendo si che la generosità di quel ragazzo contagiasse anche tanti altri. La cosa è possibile, ma non sicura. Immaginiamo quanti di quei 5 mila avranno avuto da parte del cibo certamente sovrabbondante per sé, ma anche tanta paura di metterlo a disposizione per il rischio di doverne mangiare solo una piccola e insufficiente porzione. Ma nel momento in cui tutti avessero condiviso il poco di più che avevano a disposizione, diventerebbe spiegabile l’enorme sovrabbondanza.
Il miracolo della condivisione, in effetti, è un miracolo è ancora più grande della moltiplicazione del cibo. Rimaniamo però alla realtà dei fatti: c’è una folla affamata e Gesù che ha compassione dell’uomo - e di quegli uomini in particolare - dà loro da mangiare, a partire dal poco che c’è. Certamente questo pane simboleggia un cibo ben più decisivo, ma di questo parleremo nelle prossime 4 domeniche in cui ascolteremo tutto il capitolo 6 di Giovanni che riporta il discorso di Gesù sul pane di vita. Accogliamo per adesso la buona notizia del vangelo di oggi: ‘Gesù non ci priva mai, mai, dell’essenziale’, perché egli – direbbe san Gregorio di Nazianzio – “con la sua anima è venuto a sanare le nostre anime, e con il suo corpo è venuto a sanare i nostri corpi”. Mettiamo nelle mani di Gesù il nostro poco perché lui lo moltiplichi a beneficio di tutti, e ricordiamoci che la fame di cibo, di pace, di giustizia e tutti gli altri tipi di fame sono piuttosto il frutto del moltiplicarsi dell’egoismo degli uomini. Ma anche le tante, troppe, vittime della cattiveria umana saranno comunque saziati vedranno restituito ciò che sarà stato loro sottratto.


giovedì 18 luglio 2024

Il riposo richiede memoria

 

Commento al vangelo della XVI domenica del Tempo Ordinario, anno B – 21 luglio 2024


Dal vangelo di Marco (6,30-34)

 In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.
Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero.
Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.


Commento

 ‘Venite in disparte … e riposatevi un po’”. Il poco chiesto da Gesù per stare con i suoi discepoli ha la stessa vaghezza che si trova nei ricettari di cucina dove a volte si dice di aggiungere un dato condimento q.b. (cioè: quanto basta). Gli apostoli erano ritornati, immaginiamo con grande entusiasmo, e lo abbiamo ascoltato nel vangelo di domenica scorsa: “scacciavano demòni, guarivano i malati”. Ora però è il momento del riposo, e per noi questo significa un non fare; l’immagine che forse meglio ce lo  rappresenta è il cuscino. 

Nel contesto capiamo che Gesù chiede invece ai suoi di riposare attivando un’altra facoltà, non quella del sonno ma quella della memoria. ‘Gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato’. Il riposo del cuore, il riposo che ci dà pace non è semplicemente l’astenersi dal lavoro di sempre, che comunque è necessario, ma anche il fare spazio alla gratitudine, al fare memoria di quanto bene la nostra vita è stata disseminata.
Dovrà essere così anche la nostra vita di cristiani di oggi. Anche noi siamo invitati dal Signore a trovare momenti per riportare alla memoria i benefici ricevuti nella nostra vita, prima ancora di iniziare a domandare un qualsiasi beneficio. 

Papa Francesco aggiunge al riguardo che la gratitudine rende il cuore libero e leggero, e – aggiungo io – lo riposa da tutti gli affanni più inutili e penosi.
Ma potremmo andare anche oltre, dicendo che sostare e riposare col Signore significa anche fare memoria del futuro, cioè rinvigorire la speranza per il domani, ritrovare l’ancoraggio alle nostre paure e incertezze. Ecco la vita del discepolo di Gesù di tutti i tempi: vivere il presente nella costante memoria dei benefici ricevuti ma anche nella memoria rinnovata che la Provvidenza e benevolenza del Padre non ci farà mancare mai nulla, neppure dopo l’incontro con sorella morte. Quando in ogni giornata avremo trovato il tempo per dire grazie e ridestare la nostra speranza nel Signore, potremo veramente dire di aver riposato ‘quanto bastava’.  

venerdì 12 luglio 2024

L’outfit dell’apostolo

 Commento al vangelo della XV domenica del TO, anno B – 14 luglio 2024


Dal Vangelo secondo Marco (6,7-13)

In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche.
E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro».
Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.

 

Commento

 Forse non sarà un dettaglio: Marco ci racconta che Gesù dette la possibilità ai suoi inviati di partire, oltreché con i sandali, anche con un bastone. Secondo Matteo e Luca, invece, Gesù ordino agli apostoli di non prendere neanche quello. Sarà un dettaglio dicevo, ma la tunica, i sandali e il bastone in mano era l’out-fit – si direbbe adesso – l’abbigliamento degli israeliti durante il banchetto pasquale prima del passaggio del Mar Rosso (cf. Es 12). Sembra molto evocativo: gli apostoli sono chiamati a partire per testimoniare la loro esperienza della novità del Regno di Dio instaurato da Gesù, nello stesso modo, con la stessa precarietà di quegli ebrei in partenza per la terra promessa, in fuga dall’Egitto. 

Anche gli apostoli, anche quelli di oggi e non solo quelli di allora, sono invitati ad un esodo, alla fuori uscita dal mondo vecchio, dall’uomo vecchio verso una nuova umanità, che fiorirà in coloro che accoglieranno il loro annuncio, grazie alla pasqua di Cristo, al suo passaggio tramite la morte, alla gloria definitiva del Padre.

Anche gli apostoli dovranno sopportare incomprensioni, a volte persecuzioni, lunghi momenti di deserto, ma tutti i segni che li accompagneranno  – “scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano” - sarà per loro conferma che ormai il passaggio, la Pasqua , è irreversibile. Buon esodo pasquale.


venerdì 5 luglio 2024

Gesù, il profeta della porta accanto

 

 Commento al vangelo della XIV domenica del Tempo Ordinario, anno B – 7 luglio 2024


Dal vangelo di Marco (6,1-6)

 In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.



Commento

 Pavel Florenskij diceva che non c’è nulla di visibile che non sia manifestazione di ciò che è invisibile. Nella persona di Gesù si è resa visibile e presente lo stesso Dio Padre, di per se inaccessibile alla conoscenza degli uomini. Gesù infatti aveva detto: “nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo” (Mt 11,25). Gesù è venuto a farci conoscere il volto di Dio Padre, ma, appunto, cosa ha impedito agli uomini, in particolare ai “suoi compatrioti” di riconoscerlo, tanto da portarlo all’amara constatazione che “un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (6,4)? In prima battuta potremmo dire il peccato, e nello specifico la presunzione di possedere Dio, di averne quasi il monopolio. Ricorderete quello che Gesù disse a quei farisei: “Se foste ciechi, non avreste alcun peccato, ma siccome dite “noi vediamo”, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41).

Proprio così: anche per noi cristiani che crediamo – o quanto meno dovremmo credere! - che Gesù è la piena e definitiva rivelazione di Dio, sempre dovrebbe rimanere aperta la possibilità alle nuove e inedite vie di manifestazione della sua sapienza, della sua santità, della sua provvidenza, anche nei modi – attenzione a questo aspetto – più ordinari e più semplici, e nelle persone più semplici. Papa Francesco ha invitato noi credenti a fare attenzione alla “santità della porta accanto”, alla santità di tutte quelle persone che vivono la loro fede in modo feriale, perseverante, al di fuori di manifestazioni eccezionali e di segni eclatanti. Essere falegname – o carpentiere – doveva sembrare troppo banale e incompatibile con i prodigi compiuti da Gesù; e la sua parentela fatta di persone troppo poco significative. Dunque, da dove gli venivano tutte quelle cose?
In definitiva, l’uomo di oggi, io, voi, non abbiamo bisogno di altre manifestazioni di Dio, ma di saper leggere i segni della sua presenza nei fratelli che ci attraversano la strada. 

Abbiamo bisogno di recuperare uno sguardo purificato dall’amore di Dio per poter vedere l’invisibile nel visibile che incontriamo, e poi ci occorre una grande apertura di cuore e della mente. In una preghiera dei Vespri la liturgia ci fa pregare così: “concedi a chi cerca la verità di trovarla, e di cercarla ancora dopo averla trovata”. Ecco: questa preghiera, è anche un bellissimo augurio. Non illudiamoci mai di aver capito abbastanza della persona del Signore!

mercoledì 26 giugno 2024

Soltanto abbi fede!

 
 

Commento al vangelo della XIII domenica del TO, anno B – 30 giugno 2024


Dal vangelo di Marco (5,21-24. 35b-43)

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.


Commento

 “Soltanto abbi fede!”. Questa è la parola di Gesù a quel povero papà che ha da poco appreso la morte di sua figlia. Può la fede essere la soluzione di tutti i problemi, inclusa la morte? Diciamo anzitutto che senza una accorata fiducia nell’amicizia del Signore, tutto può divenire problema e angoscia. Ma di fronte a ciò che supera le nostre forze umane, le nostre possibilità di porre rimedio, cosa può ‘produrre’ la fede nel Signore? Sembra poi che i miracoli raccontati dal vangelo siano confinati in quel breve frangente di storia della vita di Cristo ma che poi non raggiungano l’ordinarietà della nostra vita.
Proprio qui si gioca la vera la guarigione del Signore. Egli non viene per riportare alla vita biologica o per prolungarla di qualche annetto. Troppo poco! Egli è venuto per  aprirci una prospettiva di vita diversa che attraversa anche la soglia invalicabile della morte. Questi miracoli sono sicuramente veri, ma sono segni e caparra di una promessa di vita ben più grande, di vita eterna.
Secondo aspetto. Pensando all’eternità, poi, non dovremmo pensare solo alla vita dopo la morte, alla beatitudine del paradiso, ma alla possibilità, qui e ora, - si badi bene: qui e ora - di sfuggire all’angoscia dei limiti oggettivi della natura. C’è una salvezza ben più grande della fine dell’emorragia per quella donna che ha toccato con fede le vesti di Gesù. C’è una resurrezione più decisiva di quella prodotta per la fanciulla figlia di quel Giairo: la resurrezione della fede.
Per chi crede nessun segno è più necessario: Ma per chi non crede, o meglio ha deciso di non credere, nessun segno è sufficiente. In questo momento che abbiamo appena ascoltato le parole di Gesù è come se Gesù fosse di nuovo in mezzo a noi, come se ognuno di noi lo stesse toccando. Ma il punto è: quanti di noi lo toccano con fede? Quanti di noi sono veramente convinti che lui e solo lui può risvegliare in noi un modo totalmente diverso di vivere ogni cosa?... e questo modo unico è vivere in lui, una relazione fiduciosa e filiale con Dio Padre, grazie alla potente azione dello Spirito Santo.

lunedì 24 giugno 2024

Il granello di senape che placa le tempeste

 

 Commento al vangelo della XII domenica del TO, anno B – 23 giugno 2024


Dal Vangelo di Marco (4,26-31)

 In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva». E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».


Commento

 Mentre si alza la tempesta Gesù dorme a poppa della barca, adagiato su un cuscino. La scena è in sé contradditoria, anzi è l’atteggiamento di Gesù ad esserlo; perché secondo uno stile a lui consueto egli conduce i suoi compagni di navigazione a capire che il sonno più grave, e più urgente da risvegliare, è quello della loro fede, non tanto quello del suo corpo. “Non avete ancora fede?”. Una domanda rivolta a tutti noi, che navighiamo in brutte acque, o almeno così siamo convinti. Infatti, chi di noi avrebbe il coraggio di dire che sta attraversando un periodo della sua vita totalmente tranquillo? Anzi la nostra fede troppo spesso è messa in crisi anche da una tempesta in un secchio di acqua.
Eppure la barca è piena di acqua, tutto sembra perduto. Ecco che ritorna fuori il granello di senape di fede di domenica scorsa. A quei discepoli ne sarebbe bastata una quantità simile per non perdere la calma, e per assistere forse ad un intervento ancor più prodigioso della potenza di Dio. Gesù ha parlato della potenza esplosiva e esponenziale del Regno di Dio, e ora nella concretezza esercita la sua regalità sugli elementi della natura, ingiungendo loro di tacere e di calmarsi.
Dobbiamo continuare ad avere fede, sempre. L’ultima parola a decidere la storia sarà sempre la parola del Signore. Giova ricordare anche il rimprovero di San Francesco ai suoi frati nella Ammonizione V: “E tutte le creature, che sono sotto il cielo, ciascuna secondo la propria natura, servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te”. (FF 154).
Le creature, infatti, definite dal santo di Assisi, nostre sorelle, perché figlie del nostro stesso Padre, obbediscono alla sua voce, e ai suoi richiami, ma il Signore si è fatto uomo per mettersi alla ricerca della nostra libera adesione, perché - a partire da quella stessa domanda: “Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?” – possiamo godere della straordinaria eredità dei figli di Dio, dell’essere coeredi di Cristo se - aggiunge san Paolo -  “…davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.”(Rm 8,17). Concludo dicendo: cerchiamo di non essere troppo frettolosi nel rimproverare al Signore che non sta facendo niente per noi, per i nostri drammi personali, e per calmare le nostre tempeste. Chiediamoci piuttosto se siamo disposti a prenderlo nella ‘barca della nostra vita’ e a continuare a confidare in lui, a tenere sveglia la nostra fiducia, anche quando abbiamo l’impressione – erronea - che lui non stia facendo niente per noi!


giovedì 13 giugno 2024

Un nuovo principio di vita

 

 XI Domenica del Tempo Ordinario, anno B – 16 giugno 2024

 

Dal vangelo di Marco (4,26-34)

 In quel tempo, Gesù diceva [alla folla]: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

Commento

 Ricordo che proprio all’inizio del mio cammino di religioso un anziano confratello mi disse che, quando si inizia un’esperienza simile, “si sa come si inizia e non si sa mai come va a finire”. Prendendo il lato positivo della battuta si può senz’altro dire che il Signore non finirà mai di sorprendere coloro che si decidono sinceramente per lui. Abbracciare il regno di Dio, accogliere la vita secondo il vangelo, così come Gesù la propone, riserva sempre, fino alla fine, degli sviluppi sorprendenti. Non solo sorprendenti, ma anche sorprendentemente belli.
Vivere alla presenza del Signore significa accogliere un principio di vita nuova che si innesta nella propria, e che potrebbe portare a fare la stessa constatazione di San Paolo: “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”. Ciò che succede nel cuore dell’uomo quando accoglie la grazia di Cristo è paragonato allo sviluppo esponenziale di un piccolo granello di senape, Il problema è di accoglierlo, di osare la scommessa – come avrebbe detto Pascal – del fidarsi del Signore, il quale opererà meraviglie straordinarie, pur nell’ordinarietà dell’esperienza vissuta.
Esattamente quello che avvenne alla stessa comunità cristiana: da un piccolo gruppi di discepoli di medio bassa cultura ad una quantità impressionante di uomini che hanno esteso i rami della propria comunione in tutti i 5 continenti della terra. Come potrebbe essere attribuibile alla capacità umana? Come potrebbe reggersi una simile comunità lungo 2 mila anni di storia, considerato anche le testimonianze non sempre cristalline dei suoi membri? No. Evidentemente il regno di Dio ha in sé una forza strepitosa.
Resta da ribadire quello che Gesù dice nella parabola immediatamente precedente a queste due, e che per certi versi è complementare: quella della semina caduta sui diversi tipi di terreno. Ovvio che il Regno di Dio predicato e inaugurato da Gesù ha una forza divina, ma dovrà trovare un’umanità accogliente e disponibile alla scommessa della fede. Non un terreno superficiale, né con scarsa profondità, e neppure infestato dalle soffocanti spine delle preoccupazioni del mondo. Alla fine, si tratterà sempre di un incontro tra il divino e il “si” dell’uomo!  


martedì 4 giugno 2024

Liberi ma non abbandonati

 

Commento al vangelo della X domenica del Tempo Ordinario, anno B – 9 giugno 2024
 

Dal vangelo di Marco (3,20-35)

 In quel tempo, Gesù entrò in una casa e di nuovo si radunò una folla, tanto che non potevano neppure mangiare. Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; dicevano infatti: «È fuori di sé».
Gli scribi, che erano scesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni».
Ma egli li chiamò e con parabole diceva loro: «Come può Satana scacciare Satana? Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non potrà restare in piedi; se una casa è divisa in se stessa, quella casa non potrà restare in piedi. Anche Satana, se si ribella contro se stesso ed è diviso, non può restare in piedi, ma è finito. Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire i suoi beni, se prima non lo lega. Soltanto allora potrà saccheggiargli la casa.
In verità io vi dico: tutto sarà perdonato ai figli degli uomini, i peccati e anche tutte le bestemmie che diranno; ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato in eterno: è reo di colpa eterna». Poiché dicevano: «È posseduto da uno spirito impuro».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, mandarono a chiamarlo. Attorno a lui era seduta una folla, e gli dissero: «Ecco, tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle stanno fuori e ti cercano». Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?». Girando lo sguardo su quelli che erano seduti attorno a lui, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre».


Commento 

 Il vangelo di Marco è quello che più degli altri tre ci riporta la fatica degli uomini, parenti e discepoli inclusi, a comprendere il mistero di Cristo Signore, cioè il suo essere Messia, addirittura figlio di Dio, vero Dio, in una vera natura umana. Qui abbiamo un racconto incastonato tra due episodi che descrivono la relazione tra Gesù e il suo clan di appartenenza: il primo dice l’incomprensione da parte dei “suoi” – così genericamente indicati - ; il secondo racconta il desiderio di incontrarlo da parte della cerchia più ristretta dei suoi fratelli – da intendersi fratelli in senso ebraico, che intende anche i cugini – e sua madre; questi però non dicono “è fuori di sé”, ma solo cercano di incontrarlo.
E in mezzo a queste due descrizioni c’è la ben più grave incomprensione – tanto per usare un eufemismo – degli scribi che da Gerusalemme erano scesi nella valle della Galilea già con il colpo in canna pronto: “Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del capo dei demòni”.
Il peggio del peggio: Gesù, il Dio e uomo forte venuto a distruggere il regno di satana con potenza, confuso con il principe dei demoni. Qui non si tratta di incomprensione, ma di una totale cecità alla luce dello Spirito. Ecco l’occasione propizia di Gesù per ridestarci all’attenzione delle cose che viviamo, per svegliarci dal sonno di una vita che saremmo tentati di pensare non più capace di sussulti, di offrirci cose nuove, a partire – e qui è la grande difficoltà – dalle cose umane in cui viviamo. Il problema di quegli scribi era proprio la preclusione mentale alla possibilità che Dio si rivelasse nell’umanità di Gesù. “Dio è Dio, e l’uomo è l’uomo”. Verissimo ma Gesù ci rivela che in lui l’umano e il divino, pur distinti, non sono separati ma si comunicano. Nella creazione, e soprattutto con l’incarnazione di Cristo, l’umano è denso della presenza dello Spirito di Dio. E proprio la cecità riguardo la presenza dello Spirito di Dio nell’uomo-Gesù e la comunione di questo con Dio Padre, e più in generale non aver uno sguardo capace di cogliere la sua presenza viva nelle cose, e più ancora nella vita della Chiesa, precluderebbe drammaticamente l’accesso al regno dei cieli. Apriamo gli occhi del cuore, Gesù non gioca a nascondino, ma ci provoca ad una vera libertà.

giovedì 30 maggio 2024

La via del cuore

 

 Domenica del Corpus Domini – 2 giugno 2024
 

Dal Vangelo secondo Marco (14,12-16. 22-26)

Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i discepoli dissero a Gesù: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.
Mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.


Commento

  Oggi la Chiesa celebra la solenne festa del santissimo corpo e sangue di Cristo (Corpus Domini). Dopo aver contemplato, domenica scorsa, il mistero di un solo Dio nella comunione di tre persone, oggi ne contempliamo la via d’accesso: Gesù stesso e il segno permanente della sua presenza, l’Eucaristia.
In questo giorno in  molte parrocchie i bambini ricevono per la prima volta la Santa Comunione, cioè il corpo sacramentale di Gesù; tutti i cristiani dovrebbero accogliere il dono dell’Eucaristia con la consapevolezza che solo unendoci, comunicandoci alla vita e alla morte di Gesù, noi possiamo accedere alla sua eterna pace, e alla sua eterna gioia, oltre a trovare lì la forza per costruire la comunione tra noi uomini.
Nelle parole del vangelo Gesù accenna al vino nuovo che berrà nel regno di Dio; lo potrà fare perché lui (cf. Gv 15) è la vite vera, quella dove si raccoglie un frutto che dura per sempre, ma era necessario, insegna la scrittura che prima Gesù assumesse nella sua vita tutto il vino vecchio delle discordie, delle violenze, delle cattiverie degli uomini.
Ciò che avvenne storicamente nella vita di Gesù avviene ancora oggi per mezzo della celebrazione della Santa Eucaristia (la Santa Messa). Ancora oggi, e fino a quando durerà questa storia, sull’altare la misericordia di Gesù accoglie tutta la nostra storia di male e la trasforma in vino nuovo che noi gusteremo pienamente quando approderemo in Paradiso.
Non scoraggiamoci mai. Gesù si è fatto cibo da mangiare, e vino da bere per nutrire la nostra speranza, fede e carità, ma anche per darci la gioia, la consolazione del camminare sempre con lui e con l’aspettativa, certamente, di goderlo in eterno con tutto il resto dell’umanità in Cielo.

giovedì 23 maggio 2024

Uno per uno per uno = UNO

 

 Domenica della Santissima Trinità – 26 maggio 2024

 

 Dal Vangelo secondo Matteo (28,16-20)     

In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».

 

Commento

 Gesù dice che gli è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra, eppure affida agli apostoli di andare, di fare discepoli, di battezzare e di insegnare ad osservare i suoi comandamenti. Paradossale se pensiamo che Dio padre, che – appunto gli ha affidato tutto – potrebbe far sorgere figli di Abramo anche dalle pietre, come disse il Battista. Da un altro punto di vista questa scelta è coerente con il volto di Dio che Gesù ha cercato di rivelare ai suoi più intimi amici, i discepoli lì riuniti. Gesù è il figlio di Dio donato per noi in cui Dio tutto si è compiaciuto e si è tradotto in un linguaggio umano, comprensibile dalla nostra umanità. Ora sembra proprio che questo parlare di Dio all’uomo nella sua lingua non possa più arrestarsi ma debba continuare attraverso la persona e tutta l’umanità dei discepoli.
Essi però non saranno soli. Bellissimo l’ultimo versetto del vangelo di Matteo che ci riporta la più bella promessa di Gesù: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Noi sappiamo quello che diceva san Leone Magno: “quello che era nell’umanità di Gesù è passato nei sacramenti della Chiesa”. Ma si realizza, a partire da questi segni efficaci della grazia divina, una vicinanza nel cuore, in cui Dio ci fa percepire la sua paterna presenza il suo essere dono per noi, tramite il figlio Gesù nella forza del Santo Spirito: questa è la forza della comunione divina.
Gli undici, benché tardi a capire il senso della passione-morte di Gesù e il suo esito pasquale, forse qui hanno intuito l’essenziale, che proprio a tale modello di comunione divina si dovevano conformare, tanto è vero che la prima cosa che fanno dopo l’ascensione al cielo di Gesù e di ripristinare la comunione dei 12 scegliendo a sorte l’apostolo Mattia. In quella comunione umanamente adeguata lo Spirito Santo potrà trovare accoglienza e luogo fecondo per costituire la sua “dimora” e percorrere una nuova storia con ciascuno di noi.
Sembra così abbozzato qualcosa del mistero della festa odierna: della Santissima Trinità. Non un Dio in cui le persone sono una accanto all’altra (uno più uno più uno che fa tre) ma uno per l’altro e noi sappiamo che uno per uno per uno fa sempre UNO. Che la vita sia sempre più manifestazione di una semplice comunione.