venerdì 27 dicembre 2024

Può comprendere chi si lascia com-prendere

 

I domenica di Natale, Festa della Santa Famiglia – 29 dicembre 2024


Dal Vangelo secondo Luca (2,41-52)

I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro.
Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.


Commento

 Un’antica tradizione non riportata dai 4 vangeli ‘officiali’ ritrae Maria di Nazaret che accoglie la Parola di Dio con un gomitolo in mano, a significare che ella tesse nel suo grembo la carne del Verbo di Dio, o se volete tesse la carne al Verbo di Dio. L’immagine è molto bella perché dice uno svolgimento di una durata che va oltre i nove mesi di gestazione di Maria. Ella, e con lei il suo sposo Giuseppe, è la presenza umana che permette al Figlio di Dio, non solo di diventare uomo, ma di crescere “in sapienza, età e grazia”, di compiere – potremmo dire - il suo apprendistato di umanità fino all’inizio della sua missione pubblica.

Ma anche Maria e Giuseppe sono chiamati ad approfondire giorno per giorno i dettagli di quel Mistero annunciato dall’angelo Gabriele, accolto sì nell’entusiasmo della fede, ma che sarò compreso nella sua paradossalità solo ai piedi della croce e nell’evento della risurrezione. Il Vangelo ci racconta il disappunto di Maria ( «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo» ) ma anche la capacità di non scandalizzarsi, e di continuare a custodire con sguardo di fede quel bambino la cui umanità era in realtà incarnazione della persona del Figlio di Dio.  
Maria, e con lei Giuseppe, ci insegna una cosa fondamentale per la vita di fede: non si può aver la pretesa di capire tutto, e soprattutto non si può aver la pretesa di capire tutto e subito. La nostra cultura occidentale è molto portata alla definizione, alla concettualizzazione e alla spiegazione di ogni cosa; ma di fronte al mistero di Dio che si fa uomo, anziché cercare di comprendere dovremmo essere noi a lasciarci abbracciare e ‘com-prendere’ dalla sua presenza, proprio come ha fatto la Vergine Maria che - racconta l’evangelista “…custodiva tutte queste cose nel suo cuore”. E tale atteggiamento sarà tanto utile anche di fronte al mistero della vita nascente: quanto silenzio, quanta pazienza, e quanta profondità di sguardo occorrono ai voi genitori per accompagnare la crescita dei vostri figli anche nelle imprevedibili svolte della loro esistenza! Ma anche nella loro vita c’è un progetto d’amore di Dio che chiede di svelarsi nello scorrere dei giorni.


martedì 17 dicembre 2024

Pellegrina di speranza

 

Commento al vangelo della IV domenica di Avvento/C – 22 dicembre 2024

 

Dal Vangelo secondo Luca (1,39-45)

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

 

Commento

A pochi giorni dall’inizio del giubileo dell’anno santo, il prossimo 24 sera, il vangelo di quest’ultima domenica di Avvento ci presenta come ogni anno l’itinerario spirituale di colei che ha generato e partorito il vero protagonista – Gesù - della festa del Natale Cristiano.

Maria di Nazaret, infatti, non ha solo percorso un itinerario geografico, camminando da Nazareth fino a un non meglio precisato villaggio della regione montuosa della Giudea, e altri ne farà dopo la nascita di Gesù - , ma ha percorso un viaggio nella fede. Se lo slogan di questo anno santo è “pellegrini di speranza” possiamo proprio dire che, in tutti i racconti evangelici, Maria è stata lei per prima pellegrina di speranza. Ricevuto l’annuncio dell’arcangelo Gabriele, Maria ha detto con totale fiducia in Dio il suo “Sì”, ma non le è stata risparmiata la fatica di comprendere ed affrontare le modalità concrete, dure e imprevedibili con cui tutto si sarebbe realizzato.

Per questo si mette in viaggio alla ricerca della parente Elisabetta, ormai avanzata in età, che secondo l’angelo Gabriele era già al 6° mese di una gravidanza ormai insperata. Maria non parte alla ricerca di una conferma per poter credere; Maria parte per condividere la gioia di un evento imprevedibile per lei e per la sua parente. Sempre è la fede la prima scintilla che genera la speranza; sempre è la fede che mette in moto il cuore, che ne dirada le tenebre, che risveglia le attese di una vita nuova. In Maria, come nella vita di ciascun credente-discepolo di Gesù, la speranza si rigenera e si alimenta del suo stesso oggetto. Infatti, giungendo da Elisabetta, e vedendo avverata la notizia della maternità di Elisabetta si sente dire da questa: “a che debbo che la madre del mio Signore venga da me?” ricevendo una conferma di quanto aveva sentito dall’angelo.

Camminando anche noi con la fede e nella fede di Maria, saremo come lei pellegrini di speranza, perché avremo modo di vedere segni molto concreti di come il Signore mantiene le sue promesse di gioia di cui abbiamo ascoltato nel tempo di Avvento: che saranno solo una parziale caparra e anticipo della gioia eterna che ci sarà data nei cieli. Buon cammino e Pace e Bene  

venerdì 13 dicembre 2024

Giusti nel solo Giusto

 

 Commento al vangelo della III domenica di Avvento/C – 15 dicembre 2024

 

 Dal Vangelo secondo Luca (3,10-18)

In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.


Commento 

La domanda che ricorre tre volte da parte degli ascoltatori di Giovanni il battezzatore è naturale conseguenza di ciò che questi andava dicendo: “Razza di vipere, chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? Fate dunque frutti degni della conversione…”
Egli esortava ad un battesimo di conversione, ad un cambiamento di vita in vista dell’arrivo del Messia, il cui giudizio finale sembrava essere imminente: da qui l’urgenza di cambiare rotta, di cambiare orientamento di vita. In effetti è questo che esige una conversione, che voglia essere tale: una ridefinizione concreta delle scelte nell’uso dei beni, nel modo di svolgere il proprio lavoro con tutte le ricadute sugli altri che ne possono derivare.

Ma da tutto il resto della narrazione evangelica si capirà che quanto richiesto dal Battista non è possibile senza quel battesimo in Spirito Santo e fuoco che porterà solo Gesù, il vero Messia. Le persone che andavano a farsi battezzare potevano essere – presumiamo – sinceramente disposte a cambiare vita, ma quel battesimo non poteva ridargli una cosa che solo Gesù potrà offrire: la partecipazione alla vita divina – di figlio - nel suo stesso corpo risorto. Qui è il punto di svolta. Grazie al sacrificio pasquale di Gesù e al dono del Santo Spirito da lui operato nella Pentecoste, i discepoli di Cristo sono stati ristabiliti nella dignità dei figli di Dio, perché quello Spirito non è uno spirito che rende schiavi ma uno spirito che rende coloro che lo ricevono figli adottivi per mezzo del quale siamo nella condizione di poter gridare “Padre mio, padre mio caro!”; e questo un battezzato lo può dire in pienezza nei confronti di Dio stesso (cf. Rm 8,14-17).
Facendo un esempio, nulla varrebbe riparare la carrozzeria di una macchina dopo un incidente se non potessimo rimuovere il difetto che l’ha provocato. Questo per dire che Gesù non solo ci cancella il peccato – cosa che poté fare anche il battesimo di Giovanni - ma per la grazia del Battesimo cristiano e di tutti mezzi di grazia che ne conseguono, il discepolo di Gesù è immerso, battezzato, nel fuoco dell’amore divino, è reso ‘giusto’ non per meriti propri ma per l’offerta che Gesù di Nazaret, il solo giusto, ha fatto di sé. 

Per accogliere la salvezza di Dio occorre quindi anzitutto umiltà, occorre perseveranza nel custodire la comunione con Dio e con gli uomini, senza l’illusione di poter costruirsi una giustizia propria, con meriti propri da accampare davanti a Dio, se non quello di aver creduto in Lui.

venerdì 6 dicembre 2024

Nulla è impossibile a Dio… ammesso che (come ha fatto Maria) ci crediamo

 

Commento al vangelo della Solennità dell’Immacolata concezione (II dom Avvento) – 8 dic 24


Dal Vangelo secondo Luca (1,26-38)

In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallegrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei.


Commento

 Celebriamo oggi la solenne memoria del concepimento di Maria, collocata simbolicamente, tale ricorrenza, 9 mesi prima della festa liturgica della nascita di Maria – 8 settembre, appunto. Motivo di tale festosa memoria è che secondo la bimillenaria tradizione cristiana Maria, fin dal suo concepimento non è stata toccata dalle conseguenze del peccato originale, come invece è avvenuto per tutto il resto dell’umanità. Ho detto appositamente “secondo la bimillenaria tradizione cristiana” perché questo dogma della nostra fede, l’Immacolata concezione di Maria, proclamato dall’ultimo papa marchigiano Pio IX nel 1854, non è esplicitamente affermato nella Bibbia, ma è stato ininterrottamente creduto dal popolo di Dio come tramandato dagli apostoli e loro successori.
Fra parentesi, è la stessa cosa che è avvenuta per il dogma della Assunzione di Maria in anima e corpo in Cielo, che celebriamo il 15 agosto. Anch’esso fu proclamato relativamente di recente (nel 1950 da Pio XII) in base a quanto riconosciuto dalla sacra tradizione della Chiesa, seppur non esplicitamente affermato nella Scrittura; e questo proprio perché “la sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono l’unico sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa”. (Dei Verbum 10)
Infatti nel vangelo odierno che, in via del tutto straordinaria, sostituisce quello della II domenica di Avvento, leggiamo l’episodio dell’Annunciazione dell’angelo Gabriele a Maria. Nel suo disegno di misericordia Dio Padre ha protetto la Vergine Maria da ogni conseguenza del peccato d’origine per fare di lei la degna dimora, il degno grembo, del suo divin figlio: Gesù.
Siamo dunque sospesi tra queste due luci: la luce umana della fede di Maria che dicendo “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (1,38) ha reso possibile l’incarnazione del figlio di Dio, e la luce divina della misericordia, della grazia, sgorgata dal cuore di Cristo Gesù che ha reso possibile, in modo per così dire ‘retro-attivo’, che una creatura potesse essere totalmente alleggerita da ogni peso, da ogni macchia (Immacolata, appunto) del peccato umano; tutto ciò in vista dello straordinario compito di essere la madre del salvatore.
Detto questo: potrebbe venirci il dubbio che anche nella nostra vita il Signore voglia fare qualcosa di bello tramite la nostra fede, tramite il nostro ‘Si’ alla sua parola? Non possiamo soffermarci a pensare, e a provare a capire, perché il Signore abbia deciso di aver bisogno della collaborazione dell’uomo alla sua opera di salvezza; mi sembra però che sarebbe bello pensare – soprattutto in prossimità della celebrazione del Natale di Gesù – a quante cose belle e a quanta vita nuova il Signore potrebbe far germogliare nel nostro cuore e in quello di chi ci è vicino, se accogliessimo con fede la parola di Dio.


mercoledì 27 novembre 2024

In ascolto della Parola… piedi per terra, cuore in cielo

 

 Commento al vangelo della I domenica di Avvento/C – 1 dicembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Luca (21,25-28.34-36)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina.
State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all’improvviso; come un laccio infatti esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra. Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo».

 

 Commento

Avvento, inizia un nuovo anno liturgico. Un tempo caratterizzato dall’atteggiamento di attesa e di penitenza – ecco il perché del colore viola utilizzato nelle nostre liturgie. Nei primi giorni fino al 16 dicembre la parola di Dio delle celebrazioni ridesta l’attesa della venuta finale e definitiva del Signore. Dal 17 dicembre fino alla vigilia del Natale vivremo invece la preparazione alla celebrazione della memoria della sua prima venuta.

Il vangelo di oggi ci parla, appunto, dei segni grandiosi che precederanno il ritorno del Figlio dell’uomo – cioè del Signore - . Siamo chiamati a cogliere la provvidenzialità di questa duplice venuta del Signore Gesù. Gli ebrei del tempo, e probabilmente anche Giovanni Battista , aspettavano un Messia che venisse a chiudere definitivamente la storia; invece nel piano amorevole di Dio il compimento delle attese messianiche è ‘allungato’, potremmo dire ‘dilazionato’ nel tempo, per dare occasione a tutti gli uomini di accogliere ed entrare nella salvezza. Molti cristiani hanno nutrito il desiderio di un ritorno immediato del Signore, come lo stesso San Paolo che, scrivendo ai cristiani di Tessalonica, dice: ‘noi, che viviamo e che saremo ancora in vita alla venuta del Signore…’ (1Tes 4,15). Tuttavia, il Signore – scrive san Pietro – ‘non ritarda nel compiere la sua promessa, anche se alcuni parlano di lentezza. Egli invece è magnanimo con voi, perché non vuole che alcuno si perda, ma che tutti abbiano modo di pentirsi’ (2 Pt 3,9).
Quindi siamo nell’epoca storica tra le due venute di Gesù: la prima nell’umiltà della grotta di Betlemme la ricordiamo, e la celebreremo, come avvenuta 2024 anni or sono; la seconda venuta, ‘con grande potenza e gloria’ sarà alla fine della storia, e allora, dice il vangelo, potremo risollevarci, alzare il capo perché ‘la nostra liberazione sarà vicina’. 

Il vangelo, oggi come sempre, ci parla di buone notizie, eppure Gesù dice che ci saranno uomini che moriranno per la paura; ma l’atteggiamento che lui ci chiede è quello della vigilanza. ‘Vegliate in ogni momento pregando, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che sta per accadere, e di comparire davanti al Figlio dell’uomo’. Non è un invito all’insonnia, e tanto meno alla paura di un castigo perché dice san Giovanni: ‘l’amore perfetto scaccia il timore (nel senso della paura, n.d.r.), perché il timore suppone un castigo e chi teme non è perfetto nell’amore’ (1Gv 4,18).
Potremmo provare a riassumere questo tempo di attesa nel quale viviamo con tre atteggiamenti da tenere: ‘Ascolto della Parola di Dio, piedi per terra, e cuore in Cielo’. Pace e Bene.

sabato 23 novembre 2024

Il regno di ‘Lassù’

 

 Solennità di Cristo Re dell’universo/B – 24 novembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Giovanni (18,33-37)

 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
 

Commento

 Abbiamo appena ascoltato l’unico passo di tutti i quattro vangeli in cui Gesù dice espressamente di essere “re”. Alla domanda di Pilato: “Dunque tu sei re?” Gesù risponde: “Tu lo dici, Io sono re”. Tuttavia, Gesù aveva premesso che il suo regno non è di questo mondo, non è di quaggiù; anzi nel capitolo 8 dello stesso vangelo di Giovanni Gesù dice ai farisei: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù” (Gv 8,23). Capiamo che la regalità di Gesù non è quindi affermazione di potere secondo la logica del mondo, nel senso di esercizio di dominio e di forza sugli altri, ma – al contrario – affermazione della potenza che gli viene da ‘lassù’ dal Padre. E questa potenza, questo potere consiste nella capacità di offrire la vita e di riprenderla di nuovo, secondo il comando ricevuto dal Padre suo, e nostro (cf. Gv 10,18).
La sua è la regalità del dono, o ancora meglio del ‘perdono’, perché nella sua persona si afferma e si manifesta fino alla fine, fino ad un istante prima di morire, la volontà di misericordia di Dio per tutti gli uomini, per ciascuno di noi. Riportiamo alla memoria la promessa rivolta al malfattore in croce: “oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). L’amore regna dall’inizio alla fine nell’esperienza umana del figlio di Dio perché Dio stesso è amore, dice la prima lettera di San Giovanni (cf. 1 Gv 4,16). Questa è la verità di cui Gesù è venuto a dare definitiva testimonianza. Dio è amore. Una verità che non poteva essere annunciata se non amando i suoi discepoli – e in essi tutti gli uomini - fino al termine biologico del suo cammino terreno (cf. Gv 13,1ss), non semplicemente a parole
Ne deriva una seconda buona notizia che ci riguarda da vicino: con Gesù e in Gesù possiamo regnare anche noi, sempre però collocandoci nella prospettiva del ‘lassù’, non del ‘quaggiù’. Noi regneremo in eterno con Gesù a condizione di entrare nella sua Pasqua, o detto altrimenti, di vivere – per grazia sua e per la forza del suo amore – quegli stessi suoi atteggiamenti di compassione, di attenzione ai fratelli, specialmente i più deboli, a costo anche della nostra stessa vita.

mercoledì 13 novembre 2024

Tutto passa, Dio resta

 

 Commento al Vangelo della XXXIII domenica del Tempo Ordinario/B – 17 novembre 2024


+ Dal Vangelo secondo Marco (13,24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».


Commento

 Quante volte abbiamo esclamato: “Ma è la fine del mondo!”, per sottolineare la grandiosità o la straordinarietà di un fatto. O cose simili. Delle espressioni, diremmo noi, iperboliche per comunicare la forte impressione ricevuta da un qualcosa per la quale non ci basta il vocabolario a disposizione. Il modo di parlare da Gesù, che riprende una espressione del profeta Daniele, appartiene a un gergo detto ‘apocalittico’ in uso in Palestina negli ultimi secoli precedenti la venuta di Cristo. Un gergo, o genere letterario, con cui si descriveva e si dichiarava l’attesa di un Messia-salvatore che avrebbe radicalmente ribaltato le sorti della storia, non molto favorevoli a Israele in quei tempi.
Gesù è consapevole di essere colui che metterà punto nelle alterne vicende del popolo ebreo e di tutta l’umanità. Tutto passa ma ciò che non passerà mai sarà proprio la sua parola, rispetto alla quale ogni altro avvenimento resterà sempre penultimo. La sua parola resterà in eterno e in particolare il suo giudizio fondato sulla carità: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare…Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35. 40).
Quindi la storia ha una direzione, ha una fine: dal primo versetto della Genesi. “In principio Dio creò il cielo e la terra” al momento in cui “il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria”. Ma proprio perché il compimento della storia è Gesù, nella sua piena e definitiva manifestazione divina, la storia non ha solo una fine ma anche un fine. Tutti gli sconvolgimenti, tutte le disavventure umane, tutte le violenze umane non impediranno la piena manifestazione del progetto di Dio, di radunare tutti “i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13 27), lo abbiamo appena sentito.

Da ciò deriva la profonda differenza tra la speranza cristiana e un generico ottimismo. Questo, l’ottimismo, spesso viene inteso in modo ingenuo, come se le cose che non vanno – guerre, carestie, ingiustizie – dovessero risolversi da sole, in modo più o meno automatico. No. Per un cristiano le cose si ristabiliranno sì, ma ad opera di Gesù: è lui il termine della nostra speranza e con lui saranno pienamente ‘ristabiliti’, rigenerati alla vita eterna, tutti coloro che non hanno svenduto la propria elezione, la propria figliolanza divina, che non hanno sciupato il seme della Parola di Dio.

E allora un terzo e ultimo passo. Questo vangelo, se lo leggiamo bene, ci spinge a rivolgere lo sguardo non al futuro, ma al presente. Nessuno conosce ‘quel giorno’ in cui giungeranno ‘i nuovi cieli e una nuova terra’; tanto vale allora investire sull’unico tempo a disposizione: oggi. Oggi è l’unico luogo per accogliere la sua parola di vita eterna. Dice la lettera agli ebrei: “Dio fissa un nuovo giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!” (Eb 4,7). Potrebbe sembrare una contraddizione in termini ma per non perdere l’eternità occorre non perdere il treno del presente, …aprire il cuore e accogliere la parola di misericordia del Signore.

domenica 10 novembre 2024

Se la nostra moneta va fuori corso

 

 Commento al Vangelo della XXXII domenica del TO/B – 10 novembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Marco (12,38-44)

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».


Commento

 Qualche anno fa in un convento un confratello ha ritrovato qualche banconota da 50 mila lire, messe da parte in mezzo alle pagine di un libro. Ovviamente non ha potuto convertirle in euro, nemmeno presso la sede locale della Banca d’Italia e quindi…semplicemente carta straccia. Ho l’impressione che coloro che pensano di ‘comprare’ il regno di Dio col valore della loro moneta, o delle loro tante monete rischiano la stessa amara delusione.
Gesù ci offre in questo brano uno sguardo diverso per misurare il valore dei gesti che facciamo. Il mondo, la logica corrente e - mi sembra di poter dire – prevalente, sottolinea il valore numerario, quantitativo delle cose che facciamo: si cerca di quantificare il valore di un’ora di lavoro, il valore di una prestazione professionale, e addirittura si arriva a quantificare il valore dell’uso del denaro per una minima frazione di tempo. Ciò che interessa è il potere d’acquisto, cioè, capire quante cose posso acquisire con una data risorsa.
Gesù invece “chiamati a sé i suoi discepoli” conduce ad un altro tipo di valutazione: non tanto il potere d’acquisto ma il valore del dono. Le molte monete dei tanti ricchi indubbiamente avranno contribuito notevolmente di più alle spese del tempio, rispetto alle due monetine della povera vedova, ma quelle due monetine hanno un valore più grande agli occhi di Dio perché esprimono un dono enormemente più grande. Li c’era tutto il necessario per vivere, tutta la vita di quella donna. Il punto non è se abbia fatto bene o abbia fatto male a privarsi anche del necessario; il punto è la misura di valutazione che il Signore ci vuole insegnare che è quella del cuore e non quella dei numeri. La nostra preoccupazione non deve essere quella della ricerca del plauso della gente – ricorderete l’ammonizione di Gesù “quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente” (Mt 6,2) – e non deve essere nemmeno quella dell’autogiustificazione silenziosa che potremmo darci da soli per il fatto che compiamo un gesto in sé buono o dovuto, ma che potrebbe non costarci nulla, e non coinvolgere minimamente il nostro cuore. Dice il Signore a Samuele che andava cercando chi ungere come re d’Israele: “L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (1Sam 16,7). La moneta che avrà corso legale nel regno dei cieli è quella della carità, della compromissione della vita per amore, non quella delle prestazioni adempiute. Al Signore non interessa la bellezza del tempio di mattoni, interessa piuttosto che la nostra vita sia un tempio, un tempio che custodisce e trasmette il suo amore e la sua infinita gioia.  


giovedì 31 ottobre 2024

Amare: adesione prima che rinuncia

 
+ Dal Vangelo secondo Marco (12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Commento

 Anzitutto nella preghiera di Colletta che introduce la Messa domenicale il sacerdote chiede per tutta l’assemblea la grazia dell’ascolto. “Ascolta, Israele…” In realtà è questo il primo comandamento trasmesso da Mosé e ripreso da Gesù: essere capaci di ascolto o, meglio, di ascoltare con sincerità, con reale disponibilità, in una relazione aperta con l’altro. Non si può amare Dio e neppure il prossimo se sussiste chiusura pregiudiziale.

Secondo punto. Amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi sono due precetti che esistevano già nell’Antico testamento ma che vengono messi in stretta relazione da Gesù perché l’uno implica l’altro. La carità verso il prossimo non sottrae nulla a Dio e viceversa, anzi proprio attraverso la vita dei fratelli noi possiamo “restituire” e ringraziare Dio per l’amore da lui ricevuto. San Giovanni ricorda nella sua prima lettera (1 Gv 4,20): “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.
Detto in altre parole: - dice Papa Francesco - in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio (Gaudete et Exsultate 61)
Non dovremo mai scoraggiarci e temere di non esserne capaci, perché il nostro sguardo nei giorni scorsi si è soffermato sulle migliaia di santi che hanno vissuto questa radicalità dell’amore, in mille modi. E Papa Francesco nella lettera apostolica (Gaudete et Exsultate 22) ci ricorda che “non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto”. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita”. Proprio l’insieme della nostra vita dice il desiderio, l’orientamento del nostro cuore; l’eroicità delle virtù cristiane sta proprio qui, nella costante tensione ad amare sempre, con tutte le cadute che possono stare nel mezzo.

Terzo. La santità, la chiamata ad amare è per tutti, ma c’è una condizione imprescindibile: essere radicati nella vita di Cristo, attingere alla sua Grazia, vivere del suo respiro. Benedetto XVI ci ricordava che la misura della santità “è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua” (udienza 13 aprile 2011, 450). Amare è quindi possibile, perché Dio nella persona di Cristo, e nell’energia dello SS, ci ha amato per primo. Se riconosciamo questi due comandamenti come i fondamenti della nostra fede, non siamo lontani dal regno di Dio. Ma solo se riconosciamo e accogliamo la centralità di Cristo, nel regno di Dio potremo metterci i piedi.

giovedì 24 ottobre 2024

Treno della vita, direzione Gerusalemme

  

Commento al vangelo della XXX domenica del TO/B – 27 ottobre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (10,46-52)

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Commento

Gesù sta per lasciare Gerico, ultima tappa prima della destinazione finale Gerusalemme. Un uomo mendicante intuisce che quell’uomo, è esattamente colui che lo può guarire. Lo chiama “Figlio di Davide”, espressione con cui la tradizione indicava il Messia, il liberatore di Israele, e dunque facendo una sintetica professione di fede.
Egli chiedeva semplicemente di tornare a vedere, ma la risposta di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato” dice qualcosa di più di una guarigione fisica. La salvezza che egli è venuto a portarci manifesta certamente la sua efficacia e la sua potenza tramite segni fisici ma i suoi effetti si prolungano su un orizzonte di eternità. Anche ad una donna malata di emorragia il Maestro aveva dato la stessa risposta, perché quella donna era convinta che le sarebbe stato sufficiente accostarsi nel silenzio e toccare il mantello del Signore (cf. Mc 5,21-34).
Per Bartimeo è stato il suo grido di supplica che gli ha permesso di “toccare” Gesù: un grido uscito dal profondo della sua esistenza di sofferenza e di menomazione, un grido che ha vinto le resistenze di una folla che voleva indurlo a tacere, a non disturbare il percorso del Maestro nazareno.
Anche per noi la supplica è la maniera concreta per entrare in contatto col Signore. Dovremmo però esser capaci di far uscire dal cuore una preghiera non convenzionale, ma nutrita dalla fede, e per questo Gesù ci invita a non sprecare parole, quando preghiamo, come quelli che credono di essere esauditi a forza di parole (cf. Mt 6,7-8); ma piuttosto ad avere fiducia che in un modo o in un altro il Padre ci esaudirà. “Chi di voi a un figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?” (Mt 7,9) dice Gesù. Ecco la nostra forza: la fede.  

 Lo sappiamo bene: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8) ma non tutti i momenti sono uguali, e dobbiamo riconoscere che ci sono certi “treni” che passano solo poche volte nella vita, e che possono cambiare le tenebre in luce, “il nostro lamento in danza, e la nostra veste di sacco in abito di gioia” (Sal 30,12).
Mi vengono in mente le parole di una canzone di Lucio Dalla: “Felicità, su quale treno della notte viaggerai. Lo so che passerai, ma come sempre in fretta; non ti fermi mai”. Il Signore non ha sicuramente fretta, anzi egli sempre è presente nella nostra vita. Eppure le diverse circostanze della vita e gli incontri che facciamo possono rappresentare occasioni di diversa intensità per tornare a vedere, per tornare a riconoscere nei tanti volti delle persone con cui ci relazioniamo il volto dell’uomo Gesù, che ci chiede di seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme.


venerdì 18 ottobre 2024

Chi non serve qualcuno non serve a nessuno!

 

 Commento al vangelo della XXIX domenica del TO/B – 20 ottobre 2024



Dal Vangelo secondo Marco (10,35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».


Commento

 Se due domeniche fa si diceva che parlare dell’indissolubilità del matrimonio cristiano è come sparare sulla Croce rossa, oggi parlare dall’autorità nella Chiesa come servizio potrebbe sembrare cosa altrettanto ingrata; non tanto per la degnità morale di chi ricopre uffici di governo ecclesiale ma per la sovrapposizione avvenuta nei secoli passati tra competenze civili ed ecclesiali. Non dimentichiamo che con l’editto dell’imperatore Teodosio del 380 il cristianesimo divenne religione di stato dell’Impero romano e che fino al 1870 nelle nostre terre è esistito un’autorità politica che si chiamava Stato della Chiesa. Con grande fatica ci potremo sbarazzare di un’eredità che ci ha lasciato molte ombre insieme, ovviamente, a tante luci di santità vissuta.
Giacomo e Giovanni comprendono di essere con Gesù alla presenza del Kyrios, del Signore della storia, ma non hanno ancora chiaro cosa vorrà dire bere il suo calice ed essere immersi nel suo battesimo, e anzi sembra evidente in loro il desiderio di circumnavigare, di passare al largo della vicenda della passione-morte per arrivare direttamente alla gloria, sedendo uno alla destra e uno alla sinistra di lui. Per contrasto ci vengono piuttosto in mente i due ladroni crocifissi, questi sì, uno alla destra e uno alla sinistra di Gesù. In effetti la volontà umana di Gesù può arrivare fino al Golgota, fino al luogo della crocifissione, e non oltre.
Per questo alla richiesta dei due fratelli in cerca di carriera Gesù non dice di “no”, fateci caso: afferma semplicemente che non spetta lui a decidere farli sedere a fianco a lui nella sua gloria. Anzi aggiunge nelle parole successive che lui è il figlio dell’uomo venuto per servire, cioè per dare la vita, non per affermare il suo potere sugli uomini. Ed è così che dovranno fare i suoi discepoli, seguendo le sue orme: preoccuparsi di essere a servizio degli uomini, di donare la loro vita a beneficio degli altri. La vera autorità, la vera grandezza dei servi di Cristo è di essere collaboratori della gioia dei fratelli, come dice San Paolo nella II lettera ai Corinti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24).
Questo, attenzione bene, è lo stile di vita di ogni cristiano, non solo di colui che ha una qualche responsabilità ecclesiale o civile. Possiamo ben dire che “chi non serve qualcuno, non serve a nessuno”, e sarà tra quelli di cui il Signore nel giudizio finale dirà: “avevo fame e non mi avete dato da mangiare, ero forestiero e non mi avete accolto” (cf. Mt 25). Inevitabilmente chi prova a servirsi di Dio per i propri sogni di gloria, non potrà che servirsi degli uomini per farne sgabello dei propri piedi, e viceversa.
In questi due discepoli facciamo quasi fatica a riconoscere coloro che dopo la pasqua di Cristo e dopo il fuoco della pentecoste diventeranno, Giovanni l’apostolo evangelista, custode della madre di Dio, e Giacomo il primo apostolo martire,… quasi troviamo coraggio dalla loro conversione. In conclusione, a ciascun cristiano, attraverso la parola di oggi, il Signore rinnova una domanda: “Chi, veramente cercate?”


giovedì 10 ottobre 2024

Non è questione di ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente)

 

Commento al vangelo della XXVIII domenica del TO/B – 13 ottobre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (10,17-30)

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Commento

 Non è questione di ISEE. Il problema non sta negli zeri del conto in banca ma nel peso cha la presenza di Cristo ha nella nostra vita. Nella preghiera di Colletta di questa domenica pregheremo così: “O Dio nostro Padre, […] donaci di amare sopra ogni cosa Gesù Cristo, tuo Figlio, perché, […] diventiamo liberi e poveri per il tuo regno.” L’ascetismo cristiano non si basa sul radicalismo delle rinunce, ma sul radicalismo dell’appartenenza a Cristo, del metterlo al primo posto in ogni cosa che facciamo.
Non si può pensare di scoprire e di conoscere il volto di Dio partendo da se stessi, e dal proprio impegno nello spogliarsi di quante più ricchezze possibili. Sarà evidentemente il contrario: sarà possibile seguire Gesù mettendo al secondo posto tutto il resto, solo lasciandosi toccare dall’incontro con lui e con il suo amore: tramite l’affetto ricevuto dai nostri cari, a partire del riconoscimento dei tanti benefici ricevuti nella vita, o attraverso la contemplazione della sua presenza nella bellezza del creato o nelle personali esperienze spirituali.  L’evangelista Marco è l’unico dei tre evangelisti – gli altri due sono Matteo e Luca – a dirci che Gesù “fissandolo, lo amò”. Ecco: forse quell’uomo non ha colto la densità di quello sguardo che voleva indicargli il completamento del suo itinerario spirituale, a partire da un incontro personale.
O forse quell’uomo non ha capito fin da subito di non trovarsi semplicemente davanti ad un grande maestro, ma davanti a Dio in persona. Prima lo chiama “maestro buono”. Poi quando Gesù gli fa presente che solo Dio è buono, egli si corregge e lo chiama semplicemente “Maestro”. Se Gesù non è riconosciuto per quello che è, cioè il Dio fatto uomo che irrompe nella storia, “il bene, ogni bene, il sommo bene” come lo chiamava Francesco d’Assisi, qualsiasi possesso - materiale o immateriale che sia - sarà sufficiente a illuderci di essere ricchi di qualcosa e ad impedirci di entrare nel regno di Dio. Teniamo a mente la prima beatitudine di Gesù: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Se non saremo convinti di quanto sia bello e umanamente appagante vivere nell’amore di Cristo Signore ci sarà sempre una cruna d’ago ad impedirci l’ingresso nella gioia senza fine.


mercoledì 2 ottobre 2024

Graziati e liberi di amare

 

 Commento al vangelo della XXVII domenica del TO/B – 6 ottobre 2024

 
Dal Vangelo secondo Marco (10,2-16)

In quel tempo, alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, domandavano a Gesù se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla».
Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. Ma dall’inizio della creazione [Dio] li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto».
A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

 

Commento

 Il Signore nella creazione fece dell’essere umano una coppia, un maschio e una femmina e poi chiese loro di unirsi e di essere uno. Da una unità crea una coppia e poi chiede loro di essere un’unità. La comunione è un dono, la comunione non può essere imposta, altrimenti sarebbe sottomissione. Questo esige però un cuore disponibile, aperto all’accoglienza del “tu”, un cuore da bambino, come tante volte raccomandato da Gesù. “a chi è come loro appartiene il regno di Dio” (Mt 19,14).
E l’uomo che da subito non si è fidato di Dio, ha perso questa capacità ricettiva, questa capacità di accogliere la paternità di Dio, e di conseguenza il fratello, e i rapporti sono degenerati, sono divenuti conflittuali, competitivi, e il cuore dell’uomo è diventato sempre più duro.
Per questo Mosè permise all’uomo di dare un atto di ripudio alla propria sposa, perché una simile unione, nella condivisione di una vita intera richiedeva un cuore nuovo, uno spirito nuovo; richiedeva un trapianto di anima come profetizzato da Ezechiele al capitolo 36 del suo omonimo libro: “vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. ” (Ez 36,26-27).  E questo si è realizzato solo con Gesù nel dono del Santo Spirito nel giorno della Pentecoste. Ora, parlare dell’indissolubilità del matrimonio cristiano può sembrare come sparare sulla Croce rossa, ma la grazia dell’unità, della congiunzione delle vite che Cristo rende possibile all’uomo e alla donna nel sacramento delle nozze non potrà mai essere un atto automatico, così come il Battesimo non genera automaticamente la fede. Se la Grazia è, come dice la parola stessa, gratuita, resterà sempre un dono libero che necessiterà di essere custodito e coltivato, giorno per giorno, nella libertà dei figli di Dio.

mercoledì 25 settembre 2024

Gesù, non basta la parola!

 

 Commento al vangelo della XXVI domenica TO, anno B – 29 settembre 2024


Dal Vangelo secondo Marco (9,38-43.45.47-48)

In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva». Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare. Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile. E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna. E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
 

Commento

 Una prima preoccupazione di Gesù: non facciamo della fede la pretesa di monopolizzare Dio. Sicuramente Gesù ha scelto di identificarsi con l’agire dei suoi discepoli e più in generale del suo corpo ecclesiale, ma questo non esclude, e di fatto storicamente così è successo in questi 2 mila anni di cristianesimo, che Gesù possa scegliere di agire anche al di fuori dei confini visibili della sua Chiesa. Non abbiamo constatato che la sapienza del vangelo ha operato più di una volta, anche attraverso grandi uomini non cristiani? Gandi, uno per tutti.
Seconda preoccupazione di Gesù: gli scandali. Qui il problema è contrario: ci sono degli uomini che formalmente sono “dentro” il recinto della chiesa ma che si comportano in maniera dissonante con ciò che professano. Le parole del Signore sono terribili: “meglio per lui che gli venga messa al collo una màcina da mulino e sia gettato nel mare”.
In definitiva, da questi brevi moniti di Gesù, possiamo dire che l’appartenenza a Gesù, la comunione con lui non è garantita né da un’appartenenza esteriore, associativa, e neppure da un uso formale, quasi strumentale dell’autorità di Gesù, e neppure da qualche miracolo.
Giova allora ricordare quanto Gesù dice al termine del discorso della montagna: “Non chiunque mi dice ‘Signore, Signore’, entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. In quel giorno molti mi diranno: ‘Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demoni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?’ Ma allora io dichiarerò loro: ‘Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”. (Mt 7, 21-23)

Proprio così: si potrebbe riuscire a fare tante cose belle e prodigiose nel nome del Signore, ma esse non indicherebbero un vero rapporto di fedeltà e di amicizia con Lui quanto quel tratto che inequivocabile che segnala il discepolo di Cristo: la carità (il dono di sé). Si può entrare nella vita eterna senza mani, piedi o anche mezzi ciechi, ma la carità resterà l’unico corredo indispensabile per entrarvi e l’unico motivo della nostra eterna gioia.

mercoledì 18 settembre 2024

Linfinitamnete Grande si rivela nell'infinitamente piccolo

 

Commento al vangelo della XXV domenica del Tempo Ordinario, anno B – 22 settembre 2024

 

Dal vangelo di Marco (9,30-37)

In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà». Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano. Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande. Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».

 

Commento

Gesù parla di nuovo della sua passione e morte (e risurrezione), e i discepoli discutono su chi tra loro è il più grande. Forse sono così lontani dal comprendere cosa potrà essere la resurrezione del loro maestro che si preoccupano già di stabilire la successione, come se Gesù dovesse morire per sempre. Non è così anche per molti cristiani di oggi che non credono che Gesù sia vivo, in quanto, appunto, risorto? Alla domanda “chi è il capo della Chiesa?” non sarebbero in molti a rispondere tutt’oggi: “il Papa”? Il vangelo ci dice che i discepoli non capivano quelle parole, e anche noi non possiamo dire di averle capite appieno.

Probabilmente non siamo capaci di accorgerci che il Signore è vivo perché lui, nella sua infinita maestà, ha preferito manifestarsi nei piccoli del mondo, di cui i bambini sono una categoria significativa perché fragili, senza malizia, semplici. Non solo Gesù continua ad essere presente tra noi, dopo aver compiuto il nuovo esodo, quello della Pasqua, ma continua ad essere presente nei piccoli, negli ultimi, in coloro che sono nei gradini inferiori della scala sociale. Non era questa la ragione per cui San Francesco volle chiamare “frati minori” la sua fraternità? Lo scandalo della croce quindi non è solo accettare che il Cristo sia passato attraverso la morte per entrare nella gloria, ma anche che la sua presenza continui di preferenza tra coloro che il mondo esclude: il contrario di quelle bambole di legno dove quella più piccola sta dentro quella più grande. Nel caso di Cristo il più grande sta nel più piccolo. Nei bambini tocchiamo il mistero della persona di Cristo, e nella persona di Cristo tocchiamo colui che lo mandato, Dio Padre. L’infinitamente grande si trova nell’infinitamente piccolo.

giovedì 12 settembre 2024

Il falso e il vero “io”

 

Commento al vangelo della XXIV domenica del Tempo Ordinario, anno B – 15 settembre 2024


Dal Vangelo di Marco (8,27-35)

 In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti».
Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere.
Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà»


Commento

 Non sono poi così pochi, probabilmente, quelli che sono disposti a credere che Gesù di Nazaret sia stato un uomo straordinario, fuori da ogni misura di paragone con qualsiasi altro personaggio della storia. Pietro afferma nella sua risposta la convinzione che Gesù è ben oltre tutto questo, che egli è il Messia – nella lingua greca il Cristo – cioè, l’unto, il prescelto da Dio per salvare gli uomini, partendo da Israele. Dove non arriva Pietro, e dove non potrà mai arrivare nessuno di noi senza la forza dello Spirito di Dio, è che l’unto di Dio però possa soffrire, addirittura morire e poi risorge.

Probabilmente l’apostolo si blocca alla parola “venire ucciso”, e non arriva neppure a cogliere la parola successiva “…e dopo tre giorni risorgere”. A Pietro e anche a noi resta difficile accettare l’esperienza della Pasqua di Gesù, cioè il suo passaggio attraverso il dolore. Pietro rispecchia il pensiero degli uomini, diremmo noi il pensiero del mondo, che non pensa secondo Dio e cerca invece una sopravvivenza naturale, biologica, immediata, in pratica una propria auto-conservazione.

Invece Gesù nel rivelarsi al mondo ci svela il vero modo di salvarsi: offrire la propria vita nell’amore a Dio-Padre e ai fratelli, rinunciando all’idea di potersi salvare per i propri meriti derivanti dalla stretta osservanza di una legge religiosa. Chi ha accolto veramente l’amore di Dio-Padre che Gesù ci ha portato non potrà che trasmetterlo ai fratelli, restituendo al prossimo ciò che lui per primo gratuitamente sente di aver ricevuto.

Per affermare il nostro vero “io”, quello pensato in origine ad immagine e somiglianza di Dio avremo sempre bisogno, quindi, di un “Tu”: di Cristo anzitutto e dei fratelli con cui intraprendere una relazione di dono, di amore, di comunione, fuggendo così dalla tirannia del falso io, o di Satana , come direbbe Gesù, che ci spinge sempre ad un’affermazione solitaria e individualista, slegata da tutto e da tutti.