sabato 23 novembre 2024

Il regno di ‘Lassù’

 

 Solennità di Cristo Re dell’universo/B – 24 novembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Giovanni (18,33-37)

 In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
 

Commento

 Abbiamo appena ascoltato l’unico passo di tutti i quattro vangeli in cui Gesù dice espressamente di essere “re”. Alla domanda di Pilato: “Dunque tu sei re?” Gesù risponde: “Tu lo dici, Io sono re”. Tuttavia, Gesù aveva premesso che il suo regno non è di questo mondo, non è di quaggiù; anzi nel capitolo 8 dello stesso vangelo di Giovanni Gesù dice ai farisei: “Voi siete di quaggiù, io sono di lassù” (Gv 8,23). Capiamo che la regalità di Gesù non è quindi affermazione di potere secondo la logica del mondo, nel senso di esercizio di dominio e di forza sugli altri, ma – al contrario – affermazione della potenza che gli viene da ‘lassù’ dal Padre. E questa potenza, questo potere consiste nella capacità di offrire la vita e di riprenderla di nuovo, secondo il comando ricevuto dal Padre suo, e nostro (cf. Gv 10,18).
La sua è la regalità del dono, o ancora meglio del ‘perdono’, perché nella sua persona si afferma e si manifesta fino alla fine, fino ad un istante prima di morire, la volontà di misericordia di Dio per tutti gli uomini, per ciascuno di noi. Riportiamo alla memoria la promessa rivolta al malfattore in croce: “oggi con me sarai nel paradiso” (Lc 23,43). L’amore regna dall’inizio alla fine nell’esperienza umana del figlio di Dio perché Dio stesso è amore, dice la prima lettera di San Giovanni (cf. 1 Gv 4,16). Questa è la verità di cui Gesù è venuto a dare definitiva testimonianza. Dio è amore. Una verità che non poteva essere annunciata se non amando i suoi discepoli – e in essi tutti gli uomini - fino al termine biologico del suo cammino terreno (cf. Gv 13,1ss), non semplicemente a parole
Ne deriva una seconda buona notizia che ci riguarda da vicino: con Gesù e in Gesù possiamo regnare anche noi, sempre però collocandoci nella prospettiva del ‘lassù’, non del ‘quaggiù’. Noi regneremo in eterno con Gesù a condizione di entrare nella sua Pasqua, o detto altrimenti, di vivere – per grazia sua e per la forza del suo amore – quegli stessi suoi atteggiamenti di compassione, di attenzione ai fratelli, specialmente i più deboli, a costo anche della nostra stessa vita.

mercoledì 13 novembre 2024

Tutto passa, Dio resta

 

 Commento al Vangelo della XXXIII domenica del Tempo Ordinario/B – 17 novembre 2024


+ Dal Vangelo secondo Marco (13,24-32)

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «In quei giorni, dopo quella tribolazione,
il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo
e le potenze che sono nei cieli saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza e gloria. Egli manderà gli angeli e radunerà i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo.
Dalla pianta di fico imparate la parabola: quando ormai il suo ramo diventa tenero e spuntano le foglie, sapete che l’estate è vicina. Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte.
In verità io vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno.
Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo né il Figlio, eccetto il Padre».


Commento

 Quante volte abbiamo esclamato: “Ma è la fine del mondo!”, per sottolineare la grandiosità o la straordinarietà di un fatto. O cose simili. Delle espressioni, diremmo noi, iperboliche per comunicare la forte impressione ricevuta da un qualcosa per la quale non ci basta il vocabolario a disposizione. Il modo di parlare da Gesù, che riprende una espressione del profeta Daniele, appartiene a un gergo detto ‘apocalittico’ in uso in Palestina negli ultimi secoli precedenti la venuta di Cristo. Un gergo, o genere letterario, con cui si descriveva e si dichiarava l’attesa di un Messia-salvatore che avrebbe radicalmente ribaltato le sorti della storia, non molto favorevoli a Israele in quei tempi.
Gesù è consapevole di essere colui che metterà punto nelle alterne vicende del popolo ebreo e di tutta l’umanità. Tutto passa ma ciò che non passerà mai sarà proprio la sua parola, rispetto alla quale ogni altro avvenimento resterà sempre penultimo. La sua parola resterà in eterno e in particolare il suo giudizio fondato sulla carità: “Avevo fame e mi avete dato da mangiare…Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,35. 40).
Quindi la storia ha una direzione, ha una fine: dal primo versetto della Genesi. “In principio Dio creò il cielo e la terra” al momento in cui “il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria”. Ma proprio perché il compimento della storia è Gesù, nella sua piena e definitiva manifestazione divina, la storia non ha solo una fine ma anche un fine. Tutti gli sconvolgimenti, tutte le disavventure umane, tutte le violenze umane non impediranno la piena manifestazione del progetto di Dio, di radunare tutti “i suoi eletti dai quattro venti, dall’estremità della terra fino all’estremità del cielo” (Mc 13 27), lo abbiamo appena sentito.

Da ciò deriva la profonda differenza tra la speranza cristiana e un generico ottimismo. Questo, l’ottimismo, spesso viene inteso in modo ingenuo, come se le cose che non vanno – guerre, carestie, ingiustizie – dovessero risolversi da sole, in modo più o meno automatico. No. Per un cristiano le cose si ristabiliranno sì, ma ad opera di Gesù: è lui il termine della nostra speranza e con lui saranno pienamente ‘ristabiliti’, rigenerati alla vita eterna, tutti coloro che non hanno svenduto la propria elezione, la propria figliolanza divina, che non hanno sciupato il seme della Parola di Dio.

E allora un terzo e ultimo passo. Questo vangelo, se lo leggiamo bene, ci spinge a rivolgere lo sguardo non al futuro, ma al presente. Nessuno conosce ‘quel giorno’ in cui giungeranno ‘i nuovi cieli e una nuova terra’; tanto vale allora investire sull’unico tempo a disposizione: oggi. Oggi è l’unico luogo per accogliere la sua parola di vita eterna. Dice la lettera agli ebrei: “Dio fissa un nuovo giorno, oggi, dicendo mediante Davide, dopo tanto tempo: “Oggi, se udite la sua voce, non indurite i vostri cuori!” (Eb 4,7). Potrebbe sembrare una contraddizione in termini ma per non perdere l’eternità occorre non perdere il treno del presente, …aprire il cuore e accogliere la parola di misericordia del Signore.

domenica 10 novembre 2024

Se la nostra moneta va fuori corso

 

 Commento al Vangelo della XXXII domenica del TO/B – 10 novembre 2024

 

+ Dal Vangelo secondo Marco (12,38-44)

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».
Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo.
Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».


Commento

 Qualche anno fa in un convento un confratello ha ritrovato qualche banconota da 50 mila lire, messe da parte in mezzo alle pagine di un libro. Ovviamente non ha potuto convertirle in euro, nemmeno presso la sede locale della Banca d’Italia e quindi…semplicemente carta straccia. Ho l’impressione che coloro che pensano di ‘comprare’ il regno di Dio col valore della loro moneta, o delle loro tante monete rischiano la stessa amara delusione.
Gesù ci offre in questo brano uno sguardo diverso per misurare il valore dei gesti che facciamo. Il mondo, la logica corrente e - mi sembra di poter dire – prevalente, sottolinea il valore numerario, quantitativo delle cose che facciamo: si cerca di quantificare il valore di un’ora di lavoro, il valore di una prestazione professionale, e addirittura si arriva a quantificare il valore dell’uso del denaro per una minima frazione di tempo. Ciò che interessa è il potere d’acquisto, cioè, capire quante cose posso acquisire con una data risorsa.
Gesù invece “chiamati a sé i suoi discepoli” conduce ad un altro tipo di valutazione: non tanto il potere d’acquisto ma il valore del dono. Le molte monete dei tanti ricchi indubbiamente avranno contribuito notevolmente di più alle spese del tempio, rispetto alle due monetine della povera vedova, ma quelle due monetine hanno un valore più grande agli occhi di Dio perché esprimono un dono enormemente più grande. Li c’era tutto il necessario per vivere, tutta la vita di quella donna. Il punto non è se abbia fatto bene o abbia fatto male a privarsi anche del necessario; il punto è la misura di valutazione che il Signore ci vuole insegnare che è quella del cuore e non quella dei numeri. La nostra preoccupazione non deve essere quella della ricerca del plauso della gente – ricorderete l’ammonizione di Gesù “quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente” (Mt 6,2) – e non deve essere nemmeno quella dell’autogiustificazione silenziosa che potremmo darci da soli per il fatto che compiamo un gesto in sé buono o dovuto, ma che potrebbe non costarci nulla, e non coinvolgere minimamente il nostro cuore. Dice il Signore a Samuele che andava cercando chi ungere come re d’Israele: “L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore” (1Sam 16,7). La moneta che avrà corso legale nel regno dei cieli è quella della carità, della compromissione della vita per amore, non quella delle prestazioni adempiute. Al Signore non interessa la bellezza del tempio di mattoni, interessa piuttosto che la nostra vita sia un tempio, un tempio che custodisce e trasmette il suo amore e la sua infinita gioia.  


giovedì 31 ottobre 2024

Amare: adesione prima che rinuncia

 
+ Dal Vangelo secondo Marco (12,28-34)

In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l’unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza”. Il secondo è questo: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”. Non c’è altro comandamento più grande di questi».
Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.

 

Commento

 Anzitutto nella preghiera di Colletta che introduce la Messa domenicale il sacerdote chiede per tutta l’assemblea la grazia dell’ascolto. “Ascolta, Israele…” In realtà è questo il primo comandamento trasmesso da Mosé e ripreso da Gesù: essere capaci di ascolto o, meglio, di ascoltare con sincerità, con reale disponibilità, in una relazione aperta con l’altro. Non si può amare Dio e neppure il prossimo se sussiste chiusura pregiudiziale.

Secondo punto. Amare Dio con tutto se stessi e il prossimo come se stessi sono due precetti che esistevano già nell’Antico testamento ma che vengono messi in stretta relazione da Gesù perché l’uno implica l’altro. La carità verso il prossimo non sottrae nulla a Dio e viceversa, anzi proprio attraverso la vita dei fratelli noi possiamo “restituire” e ringraziare Dio per l’amore da lui ricevuto. San Giovanni ricorda nella sua prima lettera (1 Gv 4,20): “Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede”.
Detto in altre parole: - dice Papa Francesco - in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio (Gaudete et Exsultate 61)
Non dovremo mai scoraggiarci e temere di non esserne capaci, perché il nostro sguardo nei giorni scorsi si è soffermato sulle migliaia di santi che hanno vissuto questa radicalità dell’amore, in mille modi. E Papa Francesco nella lettera apostolica (Gaudete et Exsultate 22) ci ricorda che “non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto”. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita”. Proprio l’insieme della nostra vita dice il desiderio, l’orientamento del nostro cuore; l’eroicità delle virtù cristiane sta proprio qui, nella costante tensione ad amare sempre, con tutte le cadute che possono stare nel mezzo.

Terzo. La santità, la chiamata ad amare è per tutti, ma c’è una condizione imprescindibile: essere radicati nella vita di Cristo, attingere alla sua Grazia, vivere del suo respiro. Benedetto XVI ci ricordava che la misura della santità “è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua” (udienza 13 aprile 2011, 450). Amare è quindi possibile, perché Dio nella persona di Cristo, e nell’energia dello SS, ci ha amato per primo. Se riconosciamo questi due comandamenti come i fondamenti della nostra fede, non siamo lontani dal regno di Dio. Ma solo se riconosciamo e accogliamo la centralità di Cristo, nel regno di Dio potremo metterci i piedi.

giovedì 24 ottobre 2024

Treno della vita, direzione Gerusalemme

  

Commento al vangelo della XXX domenica del TO/B – 27 ottobre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (10,46-52)

In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.

Commento

Gesù sta per lasciare Gerico, ultima tappa prima della destinazione finale Gerusalemme. Un uomo mendicante intuisce che quell’uomo, è esattamente colui che lo può guarire. Lo chiama “Figlio di Davide”, espressione con cui la tradizione indicava il Messia, il liberatore di Israele, e dunque facendo una sintetica professione di fede.
Egli chiedeva semplicemente di tornare a vedere, ma la risposta di Gesù: “Va’, la tua fede ti ha salvato” dice qualcosa di più di una guarigione fisica. La salvezza che egli è venuto a portarci manifesta certamente la sua efficacia e la sua potenza tramite segni fisici ma i suoi effetti si prolungano su un orizzonte di eternità. Anche ad una donna malata di emorragia il Maestro aveva dato la stessa risposta, perché quella donna era convinta che le sarebbe stato sufficiente accostarsi nel silenzio e toccare il mantello del Signore (cf. Mc 5,21-34).
Per Bartimeo è stato il suo grido di supplica che gli ha permesso di “toccare” Gesù: un grido uscito dal profondo della sua esistenza di sofferenza e di menomazione, un grido che ha vinto le resistenze di una folla che voleva indurlo a tacere, a non disturbare il percorso del Maestro nazareno.
Anche per noi la supplica è la maniera concreta per entrare in contatto col Signore. Dovremmo però esser capaci di far uscire dal cuore una preghiera non convenzionale, ma nutrita dalla fede, e per questo Gesù ci invita a non sprecare parole, quando preghiamo, come quelli che credono di essere esauditi a forza di parole (cf. Mt 6,7-8); ma piuttosto ad avere fiducia che in un modo o in un altro il Padre ci esaudirà. “Chi di voi a un figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?” (Mt 7,9) dice Gesù. Ecco la nostra forza: la fede.  

 Lo sappiamo bene: “Gesù Cristo è lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8) ma non tutti i momenti sono uguali, e dobbiamo riconoscere che ci sono certi “treni” che passano solo poche volte nella vita, e che possono cambiare le tenebre in luce, “il nostro lamento in danza, e la nostra veste di sacco in abito di gioia” (Sal 30,12).
Mi vengono in mente le parole di una canzone di Lucio Dalla: “Felicità, su quale treno della notte viaggerai. Lo so che passerai, ma come sempre in fretta; non ti fermi mai”. Il Signore non ha sicuramente fretta, anzi egli sempre è presente nella nostra vita. Eppure le diverse circostanze della vita e gli incontri che facciamo possono rappresentare occasioni di diversa intensità per tornare a vedere, per tornare a riconoscere nei tanti volti delle persone con cui ci relazioniamo il volto dell’uomo Gesù, che ci chiede di seguirlo nel suo cammino verso Gerusalemme.


venerdì 18 ottobre 2024

Chi non serve qualcuno non serve a nessuno!

 

 Commento al vangelo della XXIX domenica del TO/B – 20 ottobre 2024



Dal Vangelo secondo Marco (10,35-45)

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Giovanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo». Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?». Gli risposero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel battesimo in cui io sono battezzato?». Gli risposero: «Lo possiamo». E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati. Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni. Allora Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti».


Commento

 Se due domeniche fa si diceva che parlare dell’indissolubilità del matrimonio cristiano è come sparare sulla Croce rossa, oggi parlare dall’autorità nella Chiesa come servizio potrebbe sembrare cosa altrettanto ingrata; non tanto per la degnità morale di chi ricopre uffici di governo ecclesiale ma per la sovrapposizione avvenuta nei secoli passati tra competenze civili ed ecclesiali. Non dimentichiamo che con l’editto dell’imperatore Teodosio del 380 il cristianesimo divenne religione di stato dell’Impero romano e che fino al 1870 nelle nostre terre è esistito un’autorità politica che si chiamava Stato della Chiesa. Con grande fatica ci potremo sbarazzare di un’eredità che ci ha lasciato molte ombre insieme, ovviamente, a tante luci di santità vissuta.
Giacomo e Giovanni comprendono di essere con Gesù alla presenza del Kyrios, del Signore della storia, ma non hanno ancora chiaro cosa vorrà dire bere il suo calice ed essere immersi nel suo battesimo, e anzi sembra evidente in loro il desiderio di circumnavigare, di passare al largo della vicenda della passione-morte per arrivare direttamente alla gloria, sedendo uno alla destra e uno alla sinistra di lui. Per contrasto ci vengono piuttosto in mente i due ladroni crocifissi, questi sì, uno alla destra e uno alla sinistra di Gesù. In effetti la volontà umana di Gesù può arrivare fino al Golgota, fino al luogo della crocifissione, e non oltre.
Per questo alla richiesta dei due fratelli in cerca di carriera Gesù non dice di “no”, fateci caso: afferma semplicemente che non spetta lui a decidere farli sedere a fianco a lui nella sua gloria. Anzi aggiunge nelle parole successive che lui è il figlio dell’uomo venuto per servire, cioè per dare la vita, non per affermare il suo potere sugli uomini. Ed è così che dovranno fare i suoi discepoli, seguendo le sue orme: preoccuparsi di essere a servizio degli uomini, di donare la loro vita a beneficio degli altri. La vera autorità, la vera grandezza dei servi di Cristo è di essere collaboratori della gioia dei fratelli, come dice San Paolo nella II lettera ai Corinti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede, siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2 Cor 1,24).
Questo, attenzione bene, è lo stile di vita di ogni cristiano, non solo di colui che ha una qualche responsabilità ecclesiale o civile. Possiamo ben dire che “chi non serve qualcuno, non serve a nessuno”, e sarà tra quelli di cui il Signore nel giudizio finale dirà: “avevo fame e non mi avete dato da mangiare, ero forestiero e non mi avete accolto” (cf. Mt 25). Inevitabilmente chi prova a servirsi di Dio per i propri sogni di gloria, non potrà che servirsi degli uomini per farne sgabello dei propri piedi, e viceversa.
In questi due discepoli facciamo quasi fatica a riconoscere coloro che dopo la pasqua di Cristo e dopo il fuoco della pentecoste diventeranno, Giovanni l’apostolo evangelista, custode della madre di Dio, e Giacomo il primo apostolo martire,… quasi troviamo coraggio dalla loro conversione. In conclusione, a ciascun cristiano, attraverso la parola di oggi, il Signore rinnova una domanda: “Chi, veramente cercate?”


giovedì 10 ottobre 2024

Non è questione di ISEE (Indicatore della Situazione Economica Equivalente)

 

Commento al vangelo della XXVIII domenica del TO/B – 13 ottobre 2024


 Dal Vangelo secondo Marco (10,17-30)

In quel tempo, mentre Gesù andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: “Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre”».
Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».

Commento

 Non è questione di ISEE. Il problema non sta negli zeri del conto in banca ma nel peso cha la presenza di Cristo ha nella nostra vita. Nella preghiera di Colletta di questa domenica pregheremo così: “O Dio nostro Padre, […] donaci di amare sopra ogni cosa Gesù Cristo, tuo Figlio, perché, […] diventiamo liberi e poveri per il tuo regno.” L’ascetismo cristiano non si basa sul radicalismo delle rinunce, ma sul radicalismo dell’appartenenza a Cristo, del metterlo al primo posto in ogni cosa che facciamo.
Non si può pensare di scoprire e di conoscere il volto di Dio partendo da se stessi, e dal proprio impegno nello spogliarsi di quante più ricchezze possibili. Sarà evidentemente il contrario: sarà possibile seguire Gesù mettendo al secondo posto tutto il resto, solo lasciandosi toccare dall’incontro con lui e con il suo amore: tramite l’affetto ricevuto dai nostri cari, a partire del riconoscimento dei tanti benefici ricevuti nella vita, o attraverso la contemplazione della sua presenza nella bellezza del creato o nelle personali esperienze spirituali.  L’evangelista Marco è l’unico dei tre evangelisti – gli altri due sono Matteo e Luca – a dirci che Gesù “fissandolo, lo amò”. Ecco: forse quell’uomo non ha colto la densità di quello sguardo che voleva indicargli il completamento del suo itinerario spirituale, a partire da un incontro personale.
O forse quell’uomo non ha capito fin da subito di non trovarsi semplicemente davanti ad un grande maestro, ma davanti a Dio in persona. Prima lo chiama “maestro buono”. Poi quando Gesù gli fa presente che solo Dio è buono, egli si corregge e lo chiama semplicemente “Maestro”. Se Gesù non è riconosciuto per quello che è, cioè il Dio fatto uomo che irrompe nella storia, “il bene, ogni bene, il sommo bene” come lo chiamava Francesco d’Assisi, qualsiasi possesso - materiale o immateriale che sia - sarà sufficiente a illuderci di essere ricchi di qualcosa e ad impedirci di entrare nel regno di Dio. Teniamo a mente la prima beatitudine di Gesù: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5,3). Se non saremo convinti di quanto sia bello e umanamente appagante vivere nell’amore di Cristo Signore ci sarà sempre una cruna d’ago ad impedirci l’ingresso nella gioia senza fine.