PARTIRE DAL(LA) FINE
TESTO (Mt 5,1-12)
In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
COMMENTO
Propongo una lettura alla rovescia di tutta la Bibbia, dall’Apocalisse alla Genesi, così da stupirsi dapprima della meravigliosa bellezza della Gerusalemme celeste per arrivare alle testimonianze della resurrezione di Cristo fatte dai pilastri della Chiesa, passando per i Vangeli dove si narra la stupenda vittoria di Gesù sul male e sulla morte, per arrivare alle origini della nostra caduta e della creazione. Così la smetteremmo di scandalizzarci della sofferenza, della cattiveria e del male degli uomini, e tutte queste tristi realtà sarebbero illuminate dalla gloria futura che ci attende e dalla definitiva vittoria di Cristo, vittoria che sarà anche la nostra e di tutti i santi.
Un modo diverso di porsi domande che non sia sempre quello che si blocca allo scandalo del dolore innocente chiedendosi il perché di tanta sofferenza conseguenza della caduta originale, ma che parta dalla bellezza della vittoria di Cristo, dal profumo del suo e nostro destino , dal fascino di quello che ci aspetta, passato tutto e dopo aver sopportato tutto. Questo tutto che sta nel mezzo diventerebbe molto più soave e ci farebbe esclamare come a Sant’Agostino: “Felice colpa che ci meritò un così grande Redentore”.
Fissando il Signore
TESTO (Lc 18,9-14)
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
COMMENTO
Lo spirito di competizione e di arrivismo inquina i rapporti umani e a volte anche quelli spirituali, perché ci porta a fare la gara sull’altro anziché sul traguardo da raggiungere. La meta del nostro pellegrinaggio è l’incontro con il Signore e già possiamo in anticipo assaporarla se apriamo la nostra coscienza alla sua legge di amore, alla sua Parola, alla pratica sincera dei suoi comandamenti. Ecco, dovremmo fare la gara su di lui, capendo quanto mi manca al traguardo; perché così facendo avremo sempre qualche lacuna da colmare e troveremo nella sua misericordia il necessario per restare al passo e confidare serenamente nel raggiungimento della meta.
Invece spesso facciamo come il fariseo che non pensa al traguardo ma semplicemente a stare davanti all’avversario. E il suo cuore è chiuso davanti ai tesori di Grazia del Signore perché il suo dire grazie è sterile , vuoto, senza contenuto. Certo, lui dice “O Dio, ti ringrazio … ” ma poi fa l’elenco delle cose che lui stesso è capace di fare e delle cose sbagliate che altri fanno e che lui non fa. Non riconosce che la sua giustizia viene da Dio e che da lui ha imparato la via del bene, ma al contrario attribuisce a se stesso ogni sua opera buona.
ABBI FEDE, E METTICI IL GATTO
TESTO (Lc 18, 1-8)
Propose loro ancora questa parabola per mostrare che dovevano pregare sempre e non stancarsi: «In una certa città vi era un giudice, che non temeva Dio e non aveva rispetto per nessuno; e in quella città vi era una vedova, la quale andava da lui e diceva: "Rendimi giustizia sul mio avversario". Egli per qualche tempo non volle farlo; ma poi disse fra sé: "Benché io non tema Dio e non abbia rispetto per nessuno, pure, poiché questa vedova continua a importunarmi, le renderò giustizia, perché, venendo a insistere, non finisca per rompermi la testa"». Il Signore disse: «Ascoltate quel che dice il giudice ingiusto. Dio non renderà dunque giustizia ai suoi eletti che giorno e notte gridano a lui? Tarderà nei loro confronti? Io vi dico che renderà giustizia con prontezza. Ma quando il Figlio dell'uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
COMMENTO
Si dice che anni fa’ un nostro confratello fu invitato da un contadino a benedire la sua stalla perché era infestata da topi. Il mite confratello invocò la benedizione del Signore con un apposito formulario che una volta esisteva per questo e altri problemi simili della vita di campagna. Terminata la benedizione il contadino esitante chiese al frate: “Padre, funzionerà?” E il frate prontamente rispose: “Ma fratello, abbi fede! E mettici il gatto”.
La vedova della parabola è l’immagine di una persona priva di ogni potere, forza o strumento di convincimento; tuttavia ella mette in opera tutto quello che può fare e chiede giustizia con insistenza, fino a importunare il giudice.
Gesù ci dice: se il giudice iniquo fa giustizia a colei che la importuna, quanto più Dio che è sommamente buono non farà giustizia a tutti noi? La forza della preghiera è misteriosa ma potente, sposta le montagne della nostra indifferenza e delle nostre paure. Stranamente è una forza che più si usa e più si rigenera.
Vivere nel ringraziamento
Testo ( Lc 17,11-19)
Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samarìa e la Galilea.
Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».
COMMENTO
Se dovessimo fare un titolo di giornale con il suo stile sintetico, lapidario e che invogli alla lettura, potremmo scrivere: “dieci guariti, un solo superstite”. Oppure, a voler calcare un po’ più la mano: “La lebbra dell’ingratitudine”.
Gesù non si presenta come un guaritore dei giorni nostri ma come un Salvatore, come uno che ci salva dalla morte eterna perché ci salva dalla radice che l’ha provocata: il peccato e il male.
Purtroppo uno solo di questi dieci intuisce la portata divina della guarigione apportata da Gesù, mentre gli altri si fermano al dato fisico, immediato. Diciamo che si accontentano di molto poco, delle briciole, di una guarigione che non li salverà dalla malattia irreversibile della chiusura alla Grazia di Dio personificata da Gesù di Nazareth.
Il samaritano invece torna da Gesù a rendergli lode e grazie perché ha riconosciuto che in quest’uomo c’è qualcosa di grande, ben più grande della ritrovata salute. Gesù è la fonte di ogni Grazia, di ogni misericordia. Possiamo sperimentarlo anche noi ogni giorno: il dono ricevuto è cosa bella che gratifica sempre, ma la gratitudine salva perché apre il cuore alla risposta, al riconoscimento che tutto ci viene donato, che da soli non siamo nulla e che tutto riceviamo. E di qui, lungo questo cammino, possiamo risalire alla fonte e ad arrivare a dire come San Francesco d’Assisi: “Tu sei santo, Signore Iddio unico, che fai cose stupende […] Tu sei la nostra speranza. Tu sei la nostra fede. Tu sei la nostra carità. Tu sei tutta la nostra dolcezza. Tu sei la nostra vita eterna, grande e ammirabile Signore, Dio onnipotente, misericordioso Salvatore”
VOLARE ALTO
TESTO (Lc 17,5-10)
In quel tempo, gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
COMMENTO
Di fede non ce n’è mai abbastanza, perché ci si sente sempre un po’ allo scoperto quando l’imprevisto sorprende o quando il dolore che non aspetteresti ti prende il cuore. Un filosofo del secolo scorso, Bergson, diceva che occorrerebbe un “supplemento d’anima”: potremmo dire che a volte sentiamo la mancanza di quel di più che porti il nostro cuore più in alto per scorgere prospettive ancora ignote, o per arrivare ad intuire la destinazione della strada che stiamo percorrendo.
In realtà capiamo che non servirebbe a nulla sradicare un gelso da terra e piantarlo in mare ma che sarebbe molto più utile sradicare dalle nostre coscienze il peso dei rancori e delle offese non perdonate, l’amarezza dell’affetto non ricambiato e quell’incredulità che impedisce di volare alto e di guardare lontano.
Anche noi come gli apostoli chiediamo al Signore: dacci un supplemento d’anima, “accresci in noi la fede”!