Visualizzazione post con etichetta economia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta economia. Mostra tutti i post

martedì 25 ottobre 2016

Da dove cominciare per redimere questa economia?




Un interessante contributo di Leonardo Becchetti nell'editoriale di Avvenire del 25 ottobre 2016


Il lavoro sempre più voucherizzato, i call center in crisi perché i precari non lo sono abbastanza, i fattorini di Foodora che portano la pizza a domicilio a salari stracciati e capiscono che l’unica disperata forma di protesta che può far presa è l’appello ai consumatori a non comprare i loro prodotti. Che cosa sta succedendo? Guardatevi intorno e vedrete nei paesaggi delle nostre città e delle nostre periferie il trionfo dell’economia e contemporaneamente il suo fallimento nel regalarci felicità e pienezza di senso di vita. 
Fallimento figlio del suo grave peccato originale. Distese senza fine di ipermercati, centri commerciali e negozi traboccanti di prodotti di ogni genere, colmi di tutte le varietà possibili vendute a prezzi stracciati, al massimo del sottocosto possibile.

Il mondo è diventato esattamente ciò che quel gruppo di filosofi morali che inventò l’economia moderna più di due secoli fa voleva che diventasse: il trionfo del consumatore. L’obiettivo era nobilissimo e tutt’altro che meschino: rendere l’umanità felice. Il risultato assolutamente di successo se valutato in termini di coerenza con le premesse. 

Peccato però che la funzione di felicità utilizzata (l’ipotesi su cosa rendesse l’uomo felice) fosse sbagliata. I fondatori dell’economia partirono infatti da un’ipotesi allora non verificabile empiricamente e rivelatasi poi del tutto fallace: una visione di uomo (l’homo economicus) la cui funzione di utilità/felicità indicava come principale, se non unica, fonte di soddisfazione l’aumento dei beni acquistabili date le proprie possibilità di spesa: in parole povere la felicità vuol dire rendere sempre più pieno il carrello del supermercato (il «paniere dei beni» usando il linguaggio più antico con cui si insegna l’economia all’università). Sarebbe stata la concorrenza di mercato lo strumento decisivo per condurci al paradiso date queste premesse e questa funzione, ovvero quella mano invisibile capace di trasformare l’avidità dei singoli produttori in una corsa al ribasso dei prezzi che avrebbe generato il massimo surplus dei consumatori. Una somma di avidità trasformata automaticamente in bene di tutti dalla mano invisibile del mercato.

È andata esattamente così. Peccato – come si diceva – che qualche tempo dopo gli studi empirici sulla felicità (e forse sarebbe bastato il buon senso comune smarrito) hanno cominciato a smentire clamorosamente le premesse ipotizzate dai fondatori dell’economia. Questi studi ci dicono quasi unanimemente che la felicità degli esseri umani non dipende affatto dalla quantità di beni consumati quanto piuttosto dalla nostra generatività, dalla qualità della nostra vita di relazioni, dalla dignità e creatività del nostro lavoro, dalla bellezza dell’ambiente in cui viviamo dalla nostra salute. 

Il paradosso in cui viviamo è che gli effetti indiretti della prodigiosa macchina messa in moto per produrre il massimo numero e varietà di beni ai minori prezzi possibili, figli di una teoria che ha messo fuori dai radar tutto quello che è fondamentale per vivere (relazioni, bellezza e qualità dell’ambiente, dignità del lavoro, salute), ha avuto purtroppo molto spesso l’effetto di produrre effetti indiretti negativi su tutte queste altre dimensioni ignorate, ma in realtà fondamentali per la nostra felicità. Abbiamo imparato tristemente a nostre spese che dietro il sottocosto (il prezzo basso non-importa-come) c’è molto spesso lo sfruttamento del lavoro, i rischi per la salute, la distruzione della sostenibilità ambientale, la messa in secondo piano della vita di relazioni. Il peccato originale degli economisti ci ha portato a vivere in una società dove siamo quasi onnipotenti, viziati e compulsivi come consumatori, ma sempre più fragili e a rischio come lavoratori, crescentemente poveri di relazioni e alla disperata ricerca di soluzioni per tutelare qualità ambientale e salute.

Come si può intervenire per correggere il bug, l’errore iniziale di programmazione di questa macchina? In estrema sintesi mettendoci gli occhiali giusti per misurare il benessere e prendendo il toro per le corna. Utilizzando cioè il massimo potere che il sistema ci dà, quello di scegliere cosa consumare e risparmiare, "votando col portafoglio" – come non mi stanco di ripetere – per riequilibrare il tutto, ridando valore e dignità al valore delle dimensioni invisibili, ma fondamentali, per il senso del nostro vivere. Dobbiamo pertanto pretendere prima di essere informati nel modo migliore possibile, per scovare poi il valore ambientale, relazionale, di dignità di lavoro e di salute incorporato nei prodotti e premiare con le nostre scelte quelli all’avanguardia in queste dimensioni. È il mercato il dominus e il mondo lo cambiamo solo cambiando il mercato. Accorgendoci che in fondo non è un’entità astratta e lontana perché il mercato siamo noi quando consumiamo e risparmiamo.

Gli ingredienti di un futuro migliore già esistono e stanno crescendo: indicatori di benessere equosostenibile, finanza e banche etiche, commercio solidale, imprese sociali e cooperative vecchie e nuove, benefit corporation, gratuità e dono che escono dalle dimensione squisitamente religiosa e diventano sempre più elementi centrali e fondamentali della vita sociale ed economica. Vanno accompagnati da una battaglia culturale sui media e sui social per sconfiggere rancore e "passioni tristi" ispirate da insicurezza sociale e povertà spirituale per rendere tutti consapevoli del potenziale enorme di cambiamento che è nelle nostre mani. La sfida è già iniziata. E tempo di prenderla sul serio.

lunedì 24 ottobre 2016

I Francescani e i monti di pietà



Quando si coglie l'esigenza pressante del Vangelo a diventare "carne", la creatività tocca tutti gli ambiti dell'umano


Può esistere un sistema in cui il credito non costa? Papa Francesco non ha dubbi: “Il denaro deve servire non governare”. Più difficile capire come agire in un sistema globalizzato in cui domina l’utilitarismo e la speculazione finanziaria sembra prevalere sulla produzione. È vero che c’è un gran discutere dei danni della speculazione finanziaria, ma come si fa a elargire il credito senza interessi? Sono i temi che ZENIT ha affrontato con il professor Oreste Bazzichi, docente di filosofia sociale ed etica economica alla Pontificia Facoltà Teologica “San Bonaventura” Seraphicum. Bazzichi è anche autore di molti libri su questi temi, gli ultimi pubblicati sono:  “Dall’economia civile francescana all’economia moderna, Una via all’umano e al civile dell’economia” (Edizioni Armando Editore 2015) e “Economia e scuola francescana” (Edizioni Libreria Universitaria.it 2013). Le prime due interviste al prof. Bazzichi sono state pubblicate da ZENIT  il 7 ed il 16 di ottobre.


Come funzionavano i Banchi di Pegno e perché i francescani ne favorirono nascita e diffusione? Per quanto veniva moltiplicato il valore del pegno per l’elargizione del credito?

In quel momento storico l’Italia stava attraversando il passaggio culturale dal Medioevo al Rinascimento e furono molti i fattori che accrebbero le richieste di denaro e contestualmente il bisogno di credito di sopravvivenza. La piaga dell’usura era dilagante e opprimeva le genti più povere delle campagne e delle città. La felice intuizione dei francescani fu quella di istituire i Monti di Pietà, organismi innovativi in grado di offrire credito per i bisogni di chiunque lo richiedesse, purché avesse da offrire in pegno un qualche bene mobile, anche di scarso valore, oppure che riscuotesse di “buona fama di onestà, di fiducia e di fede cristiana” nella comunità.

L’istituzione si formò con i proventi di donazioni e di elemosine e perciò prese il nome di Monte di Pietà. Il tasso non doveva superare il 5/6%. Dagli “Statuti” apprendiamo che, per esempio, a Perugia non si prestava più di sei fiorini al valore di 40 bolognini ciascuno e per il periodo di sei mesi, mentre nella vicina Assisi se ne prestavano soltanto cinque e nell’arco di nove mesi; a Spoleto, invece si prestava fino a quattro fiorini per un periodo di un anno. Va precisato, comunque, che si trattava sempre di piccoli prestiti, per lo più dietro presentazione di un pegno che valesse almeno un terzo in più della cifra ottenuta. Tutto questo in nome del bene comune, santificando una pratica, quella creditizia, che faceva riferimento alla disponibilità del cristiano a sacrificare per gli altri qualcosa di proprio.

Da subito l’iniziativa francescana si distinse per l’impulso esistenziale e fornì una valida alternativa in termini di lotta all’usura.  Con le loro attività i Monti Di Pietà, ora legati al credito su pegno, ora orientate a garantire una dote alle donne più povere o a contribuire al mantenimento di un ospedale o orfanatrofio, seppero adeguarsi ai cambiamenti socio-economici in tutta Europa; e proprio a questa capacità di adeguamento e di flessibilità va ricondotta la loro lunga durata fino alla istituzione delle Casse di Risparmio nella seconda metà dell’Ottocento.

L’usura è stata condannata sin dai tempi del mondo greco-romano, tuttavia si trattava di condanne piuttosto “teoriche”, e la prima vera reazione si ebbe solo con l’opera francescana, in armonia col precetto del vangelo di Luca “Mutuum date nihil inde sperantes” (6,25) che, da una prima interpretazione, si riteneva vietasse il prestito a interesse, a maggior ragione se usuraio. La teoria della produttività del capitale e del valore economico e del giusto prezzo, elaborata da fra Pietro di Giovanni Olivi e dai suoi confratelli, legittimò eticamente l’erogazione del credito a modico interesse, dando una forte accelerazione al sistema sociale ed allo sviluppo economico, che era statico.

Nel 1515 numerosi contrasti tra giurisprudenza e teologia sull’argomento vennero sanati grazie all’emanazione della Bolla “Inter multiplices” da parte del Concilio Laterano V. La Bolla Di Leone X , pur confermando la condanna della Chiesa contro il flagello dell’usura, in quanto ribadiva l’inapplicabilità per ragioni sociali del prestito a interesse, rappresentò al tempo stesso il primo riconoscimento ufficiale dell’attività creditizia praticata dai Monti, in quanto li legittimava ad applicare una modesta somma a titolo di rimborso delle spese, per queste e per altri tipi di operazioni. La massiccia diffusione di questi istituti avvenne a partire dai grandi centri dell’Italia centrale: Perugia fu il primo nel 1462, poi Orvieto, Gubbio, Pesaro, Foligno, Terni, Assisi, Spoleto, Viterbo, Firenze, Roma, Genova, Mantova, Pavia sino a espandersi in tutto il mondo “cattolico”.

Quali erano i benefici per l’economia e per la società di questo modo di intendere il credito?

Dopo l’istituzione dei Monti di Pietà si riscontrò una ripresa socio-economica delle città, se non addirittura di una uscita dalla povertà e dalla miseria dei ceti più deboli, allora costretti a ricorrere a prestiti usurai. Essi modificarono la pratica creditizia soprattutto nella direzione culturale del modo di concepire il credito: una istituzione creditizia al servizio di coloro che erano in grado soprattutto di offrire un pegno come garanzia. Non va dimenticato che i servizi dei banchi privati praticavano un alto tasso di interesse a causa della rarità del denaro liquido e per i molti rischi connessi a tale attività.

L’attività produttiva ridette dignità e spazio nella società, sottraendo i cittadini a quel degrado psicologico e morale cui l’inerzia e l’assistenzialismo possono condurre. Questo modello relazionale e sussidiario si rifletteva nell’architettura stessa della città: la piazza (intesa come agorà), la cattedrale (sede vescovile e cattedra della dottrina), il palazzo del governo, il palazzo dei mercanti e delle corporazioni delle arti e dei mestieri (organizzazione del lavoro manifatturiero), il mercato (luogo delle contrattazioni e degli scambi), i palazzi della borghesia, i conventi degli Ordini religiosi e, infine, le chiese, dove avevano sede i servizi sociali e di solidarietà promossi e praticati dalle Confraternite. Attraverso questi luoghi concreti e visibili si coltivavano le “virtù civiche”, che definivano la società propriamente civile, le cui principali caratteristiche erano: la fiducia reciproca, la sussidiarietà, la solidarietà, la fraternità, il rispetto delle idee altrui, il credo religioso e la pratica delle virtù cristiane, la competizione di tipo cooperativo. Se questa fu la via per sostenere l’attività economica del XIV e XV secolo, non è fuori luogo riproporla oggi. Leggi di mercato e principi solidaristici possono andare insieme, contro tutte le obiezioni, a condizione che il peso dei problemi e il desiderio di risolverli si trasformino in pungolo a cercare altre vie nel quadro della giustizia.