fra Damiano Angelucci da Fano ( OFM Capp): frate itinerante
venerdì 26 giugno 2020
Commento al Vangelo della Domenica XIII del TO, anno A - 28 giugno 2020
Il valore dell’accoglienza
TESTO (Mt 10,37-42)
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli:
«Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me.
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato.
Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto.
Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
COMMENTO
Non sembra un quadretto di famiglia felice e spensierata quello che Gesù presenta al termine del suo discorso apostolico. Nei versetti precedenti Egli dichiara che è venuto a portare non la pace, ma la divisione, tra figlio e padre, tra figlia e madre; profetizza ancora che i nemici dei suoi discepoli saranno quelli della loro stessa casa (cf Mt 10,36); e qui afferma apertamente la pretesa nei confronti dei suoi discepoli di essere preferito all’affetto per un figlio o per un genitore.
A noi tutto questo suona male. Figuratevi quanto doveva suonare assurdo a degli ebrei di quel tempo, appartenenti ad una cultura così centrata sulla famiglia, e sulla famiglia patriarcale.
Giova ricordare cosa dice ancora Gesù quando, secondo il Vangelo di Marco, i suoi familiari lo mandano a cercare. La sua risposte è chiara: « «Ecco mia madre e i miei fratelli! Perché chi fa la volontà di Dio, costui per me è fratello, sorella e madre». (Mc 3,35)
Non dobbiamo cogliere in queste parole del disprezzo verso i legami parentali, ma semplicemente la premura di ricollocarli dentro una relazione ordinata e organica in rapporto all’unica e originaria Paternità di Dio da cui deriva ogni relazione d’amore. Di questa paternità la vita di Gesù, nella completezza della sua corporeità, è la sola porta di accesso. Una porta che è stretta, non perché sia difficile passarvi, ma perché coincide esattamente con la vita di Gesù, centrata e alimentata solo dal compimento della volontà di Dio Padre.
Chi si lascia battezzare, cioè immergere in Cristo, nelle sue parole, nella sua mentalità filiale, nella sua Grazia, sarà un tutt’uno con Lui e potrà vivere ogni legame umano nella giusta maniera, quella voluta da Dio, come un riflesso dell’Amore creatore del Padre nostro che è nei Cieli. Ne verrà allora che chi incontrerà un discepolo di Cristo, incontrerà la presenza di Cristo stesso, e chi gli offrirà anche solo un bicchier d’acqua, lo avrà offerto a Cristo stesso. Anche la semplice accoglienza di un missionario sarà dunque un modo di accostarsi alla presenza del risorto Gesù fatto Chiesa.
venerdì 12 giugno 2020
Commento al Vangelo della Domenica del Corpus Domini, anno A – 14 giugno 2020
Un cibo spirituale per la vita dello spirito
TESTO (Gv 6,51-58)
In quel tempo, Gesù disse alla folla:
«Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
COMMENTO
Nella Domenica successiva a quella della Santissima trinità celebriamo la Festa del Corpus Domini, cioè, detto in italiano, del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo. Questa festa è stata istituita nel XIII secolo ma fin da subito i cristiani hanno creduto alla profonda verità delle parole dette da Gesù, riportate nel Vangelo e appena ascoltate.
Tanta era la coscienza già all’inizio della Chiesa della presenza di Cristo nell’Eucaristia che ci è giunta da quei tempi lontani la testimonianza dell’accusa di cannibalismo che in alcuni casi fu loro rivolta. Nessuno stupore se è vero, come è vero, che gli stessi Giudei si misero a discutere aspramente, (tradotto letteralmente) a lottare fra loro dicendo “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”
Tuttavia Gesù parla della sua carne come di un “pane disceso dal cielo” che nutre per la vita eterna. E d’altra parte al versetto 63 di questo stesso capitolo Gesù specifica: “È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla: le parole che vi ho dette sono spirito e vita”.
Dunque dobbiamo tenere insieme due elementi. La realtà della presenza della vita di Cristo nel cibo che egli ci offre, nel rito che egli ha ordinato alla Chiesa di celebrare perpetuamente; dall’altra il carattere spirituale-sacramentale di questo cibo che non nutre per la vita terrena ma per la vita eterna. Il corpo eucaristico di Cristo è la sua presenza per eccellenza nel tempo di questo mondo ma questo non ci faccia dimenticare che tale presenza rimane comunque velata dalla realtà terrena di cui è costituita, ed inoltre è temporanea, perché solo quando il Signore si sarà manifestato alla fine della storia “lo vedremo così come egli è” (cfr. 1 Gv 3,2).
Il pane del cielo, il corpo sacramentale di Cristo, non è termine assoluto del cammino di fede, ma tuttavia ne è il sostegno, la sorgente e il riposo, alimento insostituibile del discepolo di Cristo che vuole orientare la propria vita e quella del mondo ad un regno di pace e di giustizia, cioè al regno di Dio.
sabato 6 giugno 2020
Commento al Vangelo della Domenica della Santissima Trinità - Anno A - 7 giugno 2020
L’ante fatto dell’amore che è Dio
TESTO (Gv 3,16-18)
In quel tempo, disse Gesù a Nicodèmo:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio, unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio».
COMMENTO
Se a Natale e a Pasqua i cristiani festeggiano la nascita e la resurrezione del Figlio; e se a Pentecoste gli stessi cristiani celebrano lo Spirito Santo, effuso sulla nascente Chiesa rappresentata da Maria e dagli apostoli, quando viene celebrato in modo particolare Dio Padre? Forse proprio in questo giorno della Santissima Trinità. Celebrare nella prima Domenica dopo Pentecoste la Santissima Trinità significa riconoscere che nel cuore di Dio c’è un amore di Padre.
Non ci dobbiamo sbagliare su questo: le tre persone della santissima trinità – Padre e Figlio e Spirito Santo - sono divine nella stessa misura e nella medesima eterna gloria, e chi adora l’una adora anche le altre due, eppure in tutto questo circolo d’amore che Gesù di Nazaret è venuto a svelarci, c’è un principio, un prima, anzi, sarebbe meglio dire: una “ante-prima”. C’è un Padre che da sempre e per sempre si dona, perché volendo essere amore in se stesso, liberamente sceglie di donarsi e di donare vita oltre la sua soggettività.
C’è un’affermazione che chi frequenta la Messa domenicale ripete ogni volta nel credo a proposito del Figlio Gesù: “…Per mezzo di lui tutte le cose sono state create”. Sarebbe a dire che quando Dio ci ha creati, egli ci aveva già amati nel suo cuore paterno, perché in quel cuore di Padre che ci amava ancora prima di crearci, c’era già un Figlio.
In quel soffio d’amore divino tra un padre che ama e un figlio che teneramente risponde “Papà mio!” ci siamo noi, c’è l’alito di vita in cui siamo stati pensati e salvati.
Un vero Padre quale è Dio non vuole mai la sofferenza di uno dei suoi figli, ma un figlio che non si accorge di essere oggetto di un amore totalmente gratuito e liberante si condanna da solo alla solitudine, che è il peggior inferno di chi non ama. La più radicale opera di salvezza realizzata per noi da Gesù non è tanto aver cancellato il peccato dell’uomo, quanto averci restituito un cuore di figlio che sa esultare nello Spirito Santo e lodare Dio Padre. E questo trapianto di cuore non poteva che passare attraverso l’espianto del cuore vecchio-peccatore, quello da schiavo, quello che fa la contabilità di quanto paradiso si merita per le sue opere buone…presunte
Il paradiso che Dio ci prepara non è il premio per i meritevoli, ma l’abbraccio caldo e tenero di un padre per chi, grazie a Gesù, si sarà accorto di essere stato atteso e cercato come un figlio unico.
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